Di fronte all’emergenza si è attivata la risposta della Caritas. Aiuti aperti a tutti, cattolici e ortodossi, cristiani e musulmani, turchi e migranti. Il vicario dell’Anatolia: «Serve tutto, dal cibo al conforto spirituale e al sostegno umano anche fra gli stessi rifugiati». Il vescovo di Aleppo: la tragedia sia occasione per «riflettere sulla pace e sulla collaborazione» fra Ankara e Damasco
(AsiaNews): «In questo momento non si fanno distinzioni, si cerca di aiutare tutti» perché l’emergenza non fa differenze: cristiani e musulmani, cittadini turchi e rifugiati siriani, afghani, iracheni e, da qualche tempo, anche iraniani. John Farhad Sadredin, responsabile Caritas Anatolia, bloccato per qualche ora dalla neve nel centro della Turchia, sta cercando di raggiungere Iskenderun «dove incontrerò il vice prefetto» per coordinare gli aiuti «con le autorità locali». Serve, racconta ad AsiaNews, «piena collaborazione» e molte risorse, perché i bisogni sono enormi. «La priorità – prosegue – è garantire un pasto caldo, una coperta, un riparo. Come Chiesa e Caritas abbiamo ordinato latte in povere e pannolini per bambini piccoli e ammalati». Gli aiuti «sono aperti a tutti» e già in parrocchia «abbiamo 70 persone cui forniamo un riparo e pasto caldo: sono cattolici, ortodossi, musulmani perché la tragedia aiuta a mettere da parte le divisioni».
Secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità potrebbero essere fino a 23 milioni le persone colpite a vario titolo dal devastante terremoto, mentre la terra continua a tremare con forte intensità anche nella giornata di oggi. Al momento le vittime accertate fra Turchia e Siria sono oltre 5mila (di cui circa 3.900 in territorio turco), ma si tratta di numeri provvisori e ancora lontani dalla reale portata della tragedia. Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, che ha avocato a sé poteri e gestione della Protezione civile (Afad) ha inviato il ministro dell’Agricoltura ad Adana dove è stato oggetto di durissime contestazioni da parte della popolazione locale che lamenta ritardi nei soccorsi e denuncia il crollo di edifici costruiti da poco, segno di corruzione e malaffare. Intanto cominciano a filtrare le prime notizie di repressioni, con la polizia turca che avrebbe arrestato quattro persone per aver “criticato” sui social i ritardi nei soccorsi.
Gli aiuti della Chiesa
Il devastante terremoto con epicentro nell’Anatolia, e le oltre 240 scosse di assestamento (una delle quali di magnitudo 7,5), si sono avvertite distintamente in diversi Paesi della regione, dal Libano a Israele, ma è in Siria che ha causato i maggiori danni oltre alla Turchia. Nell’area vivono centinaia di migliaia di profughi in fuga dalla guerra che ha martoriato la nazione araba dalla primavera del 2011. In un decennio si sono riversati fra le braccia di Erdogan – che prima li ha accolti in nome dell’islam e ora, assieme a una fetta consistente del Paese, li vuole rimpatriare perché ritenuti corresponsabili della crisi economica – 3,6 milioni di siriani, il numero più consistente al mondo.
«Ieri sono riusciti a mettere in salvo le famiglie cristiane a Iskenderun – racconta John Farhad Sadredin – ma due vittime si contano ad Antiochia; una è la sagrestana di Adana, andata in visita in città e rimasta sepolta sotto le macerie. Oltre i numeri, serve fornire assistenza – anche psicologica – a due Paesi divisi da anni di conflitto ma che ora affrontano una comune tragedia».
«Speriamo che questo terremoto – interviene mons. Paolo Bizzeti, vicario d’Anatolia che dall’Italia sta coordinando gli aiuti in attesa di rientrare in Turchia – sia occasione di rinnovata solidarietà, per andare oltre divisioni e sofferenze del passato». «Stamattina a Iskenderun – prosegue il prelato – si è registrata una forte esplosione, forse una fabbrica chimica, e una nube probabilmente tossica ha avvolto la città. Adesso temiamo anche una serie di effetti collaterali terribili, la situazione è in peggioramento. Negli spazi dell’episcopio abbiamo accolto 50/70 persone rimaste senza un tetto».
Come Chiesa l’obiettivo è riuscire a tracciare una “mappa della situazione”, racconta il vicario, e in giornata è in programma una riunione di Caritas Turchia «per vedere come organizzare il lavoro, partendo dalla raccolta fondi che sarà essenziale e per questo ho dato indicazioni precise in un comunicato. Serve tutto, dal cibo al conforto spirituale e al sostegno umano anche fra gli stessi rifugiati: abbiamo famiglie – conferma mons. Bizzeti – che seguivamo da anni con vari progetti e che contano diversi morti, anche bambini, altri sono sotto le macerie. I rifugiati sono i più poveri fra i poveri, la situazione è in evoluzione e siamo lontani dal tracciare la reale portata della tragedia».
«Siriani, afghani, iracheni, iraniani: abbiamo sempre aiutato tutti – riprende il responsabile Caritas John Farhad Sadredin -. A Gaziantep avevamo quattro progetti per le donne, specialmente le vedove che sono spesso sole a casa e senza risorse. Ieri abbiamo saputo che cinque di loro sono decedute sotto le rovine. In Cappadocia avevamo una mensa per famiglie afghane, con produzione interna di pane, yogurt, marmellata e sottaceti fatti dalle donne». A Iskenderun, conclude, «dovrebbero arrivare 400 coperte, nell’aree stanno convergendo molti giovani da diverse città per aiutare nell’emergenza. Ma è essenziale coordinare gli interventi, per questo ci sarà un incontro con Caritas internazionalis e domani è previsto l’arrivo di delegazioni da Italia e Stati Uniti».
In questa fase di grande emergenza servono esperienza sul campo, coordinamento (anche con le autorità locali) e ascolto come sottolinea Giulia Longo, program manager di Caritas Turchia. Uno degli obiettivi dell’intervento, spiega, è «raggiungere anche quanti sono dimenticati, portare la nostra presenza fra i profughi. Il terremoto non è solo catastrofe naturale, ma riguarda anche la questione migratoria. Molti dei nostri progetti pre-sisma a Gaziantep erano proprio dedicati a donne rifugiate, imprese di microcredito, produzione di vestiti per l’inverno… una di loro è morta sotto le macerie. Servono poi centri di ascolto, perché quasi tutti hanno un conoscente deceduto per il terremoto, e punti di incontro» di fronte a una «tragedia comune» per turchi e immigrati che negli ultimi tempi «a fatica si accettavano o si integravano. Servono coordinamento (con le autorità, ndr) ed equilibrio, andare incontro all’altro guardando al bisogno».
Il dramma dei rifugiati siriani
Le province di Gaziantep (dove è presente una sede dell’Alto commissario Onu per i rifugiati) e Kahramanmaras si trovano nei pressi della frontiera e ospitano sfollati e rifugiati interni. I siriani in fuga dalla guerra hanno iniziato a migrare fin dai primi mesi del 2011, ma è nel 2016 che Ankara ha preso la decisione di costruire tre “centri”, usando container dismessi. Quelli a Kahramanmaras possono ospitare fino a 25mila persone, un alloggio temporaneo dettato dall’emergenza che però non ha mai trovato una soluzione definitiva. Tanto che oggi nella regione di Gaziantep vivono fino a 500 mila rifugiati su una popolazione di due milioni e i commercianti di sapone hanno trasferito nell’area, da Aleppo, il centro di produzione del celebre sapone diffuso.
Agenzie internazionali, attivisti e gli stessi operatori della Chiesa concordano nell’affermare che il sisma ha colpito in una regione in cui milioni di persone erano già vittime di una crisi umanitaria di portata devastante. E in cui, già in tempi normali, gli sforzi finalizzati alla distribuzione di aiuti erano complicati – se non bloccati – da controversie territoriali, prima fra tutte la zona “cuscinetto” voluta da Erdogan per arginare la (presunta) minaccia curda. Per raggiungere l’obiettivo il presidente ha più volte annunciato una massiccia operazione militare di terra oltreconfine, in territorio siriano, alimentando le tensioni con l’omologo siriano Bashar al-Assad, mitigate solo nelle ultime settimane da voci di dialogo fra Ankara e Damasco.
«Dopo 12 anni di guerre, di violenze e di povertà – racconta ad AsiaNews il vescovo caldeo di Aleppo, mons. Antoine Audo – adesso siamo forse arrivati al punto ultimo di tutte queste sciagure. La natura stessa si è ribellata e ha attaccato. In queste ore sono rimasto molto colpito dai tanti musulmani che vivono questo evento come un mistero, cercando di accettare la volontà di Dio e secondo uno spirito di obbedienza. In tutti questi anni ho vissuto la tragedia della guerra, la crisi economica, il Covid, ho cercato di lavorare per la pace, ma con questo sisma io come molti altri abbiamo davvero visto la morte con i nostri occhi, una esperienza unica nella sua drammaticità. Adesso è tempo di intervenire e di cercare di aiutare, per questo è in programma una riunione con tutti vescovi cattolici della regione, dalle coperte al cibo, perché la gente possa ritrovare la forza e la fiducia per tornare a casa e ricostruire».
In queste ore Aleppo è tornata al centro delle cronache internazionali, dopo essere stata per anni epicentro del conflitto, con i morti e le devastazioni, per poi essere dimenticata. Ma fra le altre realtà disastrate da guerra e terremoto vi è il nord-ovest del Paese, che è sotto il controllo di gruppi jihadisti e ribelli, in cui non vi è una presenza capillare di movimenti internazionali e risulta ancora più difficile cogliere appieno la portata catastrofica del sisma. Il Syrian Civil Defense, una sorta di Protezione civile operativa nei territori in mano ai ribelli, parla di stato di emergenza e invoca aiuti internazionali. Secondo le stime fornite ieri dal gruppo, oltre 700 persone sono morte e i feriti sono più di duemila ma i numeri sono in costante aggiornamento, con squadre di soccorritori che scavano fra le macerie e cadaveri che continuano ad affiorare dai resti dei palazzi distrutti. Fra i tanti vi è il caso del villaggio di Besnaya, nella zona nord-occidentale della provincia di Idlib, nei pressi del confine turco-siriano, dove un complesso residenziale di 140 appartamenti è raso al suolo.
«Di fronte a noi – riprende il vescovo di Aleppo – abbiamo una moschea, che ha subito pesanti danni. Vogliamo far loro una visita ufficiale, per presentare le nostre condoglianze e fornire alcuni aiuti. Questo terremoto è una prova per tutti», conclude mons. Audo, una prova «che è caduta sulle spalle di Siria e Turchia perché possa diventare occasione per andare oltre e riflettere sulla pace e sulla collaborazione. Per pensare alle moltissime vittime fra i rifugiati, per una prospettiva che sappia abbattere i muri e avere un seguito anche a livello di società (e di governi, ndr)».