La Pasqua di Hieng che dall’Italia è tornato in Cambogia per dare corpo alla resurrezione del suo Paese dopo le piaghe vissute sulla sua pelle al tempo di Pol Pot
“Gli uomini se ne vanno… e non tornano più.
Non risorgono i loro mondi segreti.
E ogni volta vorrei gridare ancora
contro questo irrevocabile destino” (E. A. Evtušenko).
In questo ritratto di Hieng, cambogiano, classe 1955, sopravvissuto alla furia dei Khmer Rossi, mi aiuteranno le parole di un poeta recentemente scomparso, il russo Evgenij Aleksandrovič Evtušenko. In una sua poesia del 1961 scriveva che tutti gli uomini sono interessanti, “i loro destini sono come le storie dei pianeti”.1 Scrivo perché Hieng mi si è rivelato come un nuovo pianeta, un nuovo mondo e solo la parola poetica mi sembra adeguata, onesta, vera e capace di esprimere il mistero di una vita altrimenti ordinaria, anonima, come quella di un uomo qualunque che si chiama Hieng. Ad un primo sguardo, infatti, non gli daresti due lire, l’occhio è tentato di ridurre ancor di più ciò che già si presenta piccolo, semplice e dimesso. Eppure mentre chiacchieravo con lui ho sentito quello che Mario Luzi chiama il “punto di partenza di una poesia”, “quel qualcosa che viene dal fondo (…) come un’onda che porta in superficie delle cose – molto sedimentate, molto assimilate dalla sensibilità e dalla coscienza – ma che non si notavano più”.2 Improvvisamente riaffiorano ed il loro riverbero in noi genera un’empatia inaspettata, la sensazione che l’incontro con quell’uomo fosse stato scritto e messo in conto da sempre. Fino a quell’istante, fino a quel momento, quando ogni gesto, espressione e parola si lasciano attraversare dalla gioia e dalla sorpresa di essersi non solo conosciuti, ma ri-conosciuti dopo tanto tempo. Mentre raccontava la sua vita cercava infatti di recuperare il tempo perduto, e darci il distillato dei suoi anni e dei suoi sogni fino a raccontare molto di sé. È l’intensità del racconto e della parola ciò che impreziosisce i nostri rapporti, molto più del tempo trascorso insieme…
Hieng vive in un piccolo appartamento in affitto alla periferia sud di Phnom Penh. Strade strette, sporche, sovraffollate, labirinti dove la vicinanza non è una scelta e non si può nemmeno fuggire perché ormai si è perso il bandolo di quella matassa umana. I pochi metri quadrati che ha a disposizione sono occupati quasi interamente da macchine utensili per la lavorazione del ferro e la costruzione dei prototipi che sogna di notte. Tra il 1975 e il 1979, durante il regime di Pol Pot, Hieng lavorava in una fabbrica di macchinari agricoli. Lì apprese il mestiere, coltivò una passione che è rimasta intatta come il primo giorno, anzi si è irrobustita e approfondita con il passare del tempo. “Nella fabbrica – mi racconta – entravano le lamiere e uscivano i trattori”. Il regime filo maoista di Pol Pot aveva diverse fabbriche simili con lo scopo di meccanizzare la produzione agricola. Se non fosse stato per la furia omicida del regime, avrebbero potuto raggiungere traguardi ragguardevoli, ma l’ideologia del pensiero unico e la violenza che portava, hanno rovinato il Paese condannandolo all’autodistruzione. In quella fabbrica lavoravano altre 300 persone; alla fine solo 15 sono sopravvissute. Mentre racconta della sua vita capisco che Hieng ha un’inaudita abilità tecnica e meccanica, sa progettare, costruire, portare a compimento l’idea che gli proviene da dentro. “Ognuno ha la sua particolarità (…) Ognuno ha il suo segreto mondo personale”, ci ricorda Evtušenko. Anche il modo in cui sono venuto a sapere di lui è particolare: il preside della nostra futura scuola media, sapendo che provengo dall’Italia, mi ha detto che ha un amico cambogiano che parla italiano. In questi casi mi lascio subito incuriosire, immaginando che dietro possa esservi una strada inedita, un volto e una storia da scoprire. Il preside, assecondando il mio interesse, ha preso il telefono e ha chiamato l’amico. Me lo ha passato, abbiamo cominciato a parlare in italiano e ci siamo dati appuntamento.
Hieng è un sopravvissuto. Considera gli altri 14 compagni scampati “più che fratelli”. Si invitano ai matrimoni dei figli, si prestano denaro se occorre, ma nessuno poi reclama il dovuto. Per chi sopravvive dopo simili tragedie nulla è dovuto, tutto è donato. Nei confronti di Hieng nutrono molto rispetto perché – dicono gli amici – “non sa bere, non va a donne, non gioca d’azzardo, non è un perdi tempo” e – aggiungo io – ha un’abilità fuori dal comune. È un inventore, diremmo noi evocando figure d’altri tempi e d’altri mondi. Quando ormai era evidente che Pol Pot avrebbe portato il Paese alla rovina, come molti altri suoi connazionali, riesce a scappare in Thailandia. Vive per alcuni anni in uno dei campi profughi allestiti al confine tra i due Paesi e nel 1981 ottiene la possibilità di rifugiarsi in Italia. Sono solo due le famiglie che ottengono il permesso. Hieng parte con la moglie e la prima figlia appena nata; rimarrà in Italia per circa trent’anni fino al 2010, anno del suo ritorno in Cambogia. In Italia fa un po’ di tutto, pagato e non pagato. Conserva il ricordo caro di alcuni sacerdoti incontrati, di suore e amici che lo hanno aiutato nel campo profughi in Thailandia. In Italia la sua abilità nella meccanica gli ha aperto molte porte e gli ha permesso di sistemare i suoi tre figli con una casa ciascuno. Poi, nel 2010, la scelta di tornare in Cambogia pur potendo rimanere ancora in Italia e mettere a frutto le sue abilità. Sotto casa ha sempre avuto un laboratorio dove poter realizzare i prototipi che man mano pensava. Chiacchierando ci parla di una macchina per la produzione di pellet. Il modello, corredato di disegni, è stato presentato agli studenti di ingegneria meccanica dell’Institut de Technologie du Cambodge, il politecnico di Phnom Penh. Gli ho chiesto perché ha voluto tornare indietro, con la moglie, un passaporto italiano in tasca e 20 tonnellate di macchinari al seguito?
“Per continuare quello sviluppo dell’agricoltura cambogiana che Pol Pot ha interrotto, e poter passare dal metallo grezzo ad un trattore di produzione cambogiana, non cinese!” – mi racconta lasciando trasparire tutta la passione e l’attesa di chi ha vissuto per trent’anni in Italia aspettando il giorno del suo rientro in Cambogia. La sua officina meccanica, piccola e caotica, sembra piuttosto una bottega di arti e mestieri, un laboratorio dove prima del metallo si forgia l’uomo e il suo desiderio. Ha già accolto diversi ragazzi desiderosi di imparare, ma si è spesso scontrato con la pretesa di un guadagno facile mentre lui vorrebbe insegnare a “creare” e non solo a “fare”. Non è interessato al modo seriale di produrre le cose, ma al modo primordiale, cioè per la prima volta, come la prima volta. Per questo ha creato numerosi prototipi, e continua a sognarne di nuovi. Hieng sente che questa è la ragione, la mancanza, che lo hanno spinto a tornare. Il talento di un uomo così, il suo desiderio di bene, umile e laborioso, preciso e sobrio, nascosto dietro quell’abilità non comune che si è trovato tra le mani, possono essere sciupati. “Molto di quello che vorrei fare rimane nel sogno” – mi racconta – “ma se sono sopravvissuto una volta, quel sogno può diventare realtà”.
Uno degli amici sopravvissuti lo ha voluto aiutare prestandogli del denaro da restituire “quando e se li avrai”. Mi preme ora che la singolarità, l’unicità, la particolarità di quest’uomo e del suo talento possano ancora esprimersi. Quella singolarità che Evtušenko ben sottolinea quando parla della morte di un uomo comune, di un uomo qualsiasi, insignificante agli occhi di molti eppure unico. “Quando un uomo muore, – scrive il poeta russo – muore con lui la sua prima neve, e il primo bacio e la prima battaglia… Tutto questo egli porta con sé. Rimangono certo i libri, i ponti, le macchine, le tele dei pittori. Certo, molto è destinato a restare, eppur sempre qualcosa se ne va”. Questo vale per Hieng e per tutti: “Non sono [solo] uomini che muoiono, ma mondi”.
Ho promesso ad Hieng che gli manderò qualche ragazzo a imparare/lavorando presso la sua officina/bottega dove non si forgia solo il metallo, ma qualcosa di più prezioso. Papa Francesco, nella veglia in preparazione alla prossima GMG, ha raccomandato ai giovani di attingere ai sogni dei nonni: “da quei sogni prendi tu per andare avanti, per profetizzare (…) Questa è la vostra missione oggi, questa è la missione che vi chiede oggi la Chiesa”.3 Alla fine dell’incontro, chiuso nel suo angusto laboratorio, Hieng mi è parso il simbolo di un’umanità ancora inespressa, eppure fervida. Per questo affido il suo sogno alla forza della Pasqua di Gesù: “Esploderà / non come urlo / bensì come uno sgorgo / di umanità inespressa / del poema / lo zampillo / di purità / schianterà / la pietra che lo tiene”.4 Buona Pasqua!
p. Alberto
1 I versi sono tratti dalla poesia Uomini di Evgenij Aleksandrovič Evtušenko, facilmente reperibile on-line.
2 M. LUZI, in A. SPADARO, L’altro fuoco. L’esperienza della letteratura II, Milano 2009, 153.
3 http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2017/april/documents/papa-francesco_20170408_veglia-preparazione-gmg.pdf
4 M. LUZI, in A. SPADARO, L’altro fuoco. L’esperienza della letteratura II, Milano 2009, 153.