Sri Lanka, la guerra e la voce della coscienza

Sri Lanka, la guerra e la voce della coscienza

Dieci anni fa a Colombo veniva ucciso il giornalista cristiano Lashanta Wickremetunge che in un editoriale preparato per il giorno della sua morte scrisse una delle pagine più forti sul dovere della verità di fronte alle atrocità di un conflitto, anche quando a commetterle è chi sta dalla propria parte della barricata. Una voce scomoda per la cui morte, nonostante la fine di quella guerra, non è stata ancora fatta giustizia

 

In una guerra si può morire anche per aver detto la verità. È la storia che dieci anni fa raccontava Lashanta Wickremetunge – giornalista dello Sri Lanka, cristiano pentecostale dell’Assembly of God e direttore di The Sunday Leader – ucciso in un agguato a Colombo l’8 gennaio 2009. Quelli che seguono sono alcuni brani dell’editoriale che questo giornalista aveva preparato per il giorno della sua morte. Un testo coraggioso di un cristiano che accetta coscientemente il martirio pur di non lasciar tacere la voce della sua coscienza. L’avevamo pubblicato allora su Mondo e Missione e lo rilanciamo oggi insieme alla notizia diffusa da AsiaNews della lettera aperta in cui il fratello Lal Wickremetunge denuncia come a dieci anni di distanza (e nonostante la fine della guerra contro l’Ltte) i colpevoli di questo omicidio dal mandante chiarissimo non siano ancora stati appurati e altre persone siano state uccise per non far emergere la verità. Una testimonianza che dice quanta strada manchi ancora per arrivare a una pace vera nello Sri Lanka.

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Non c’è altra professione che chieda ai propri operatori di sacrificare la vita se non l’esercito e, nello Sri Lanka, il giornalismo. Nel corso degli ultimi anni i mezzi di informazione indipendenti si sono ritrovati sempre di più nel mirino. Le sedi dei giornali stampati ed elettronici sono state bruciate, bombardate, chiuse e devastate. Innumerevoli giornalisti sono stati picchiati, minacciati e uccisi. Ho avuto l’onore di appartenere a tutte queste categorie e adesso – in particolare – all’ultima.

Mi occupo di giornalismo ormai da parecchio tempo. Infatti in questo 2009 The Sunday Leader compie 15 anni. Molte cose sono cambiate nello Sri Lanka durante questo periodo e non c’è bisogno di spiegare che nella maggior parte dei casi si è trattato di cambiamenti in peggio. Ci siamo ritrovati nel mezzo di una guerra civile portata avanti selvaggiamente da protagonisti la cui sete di sangue non conosce confini. Il terrore, indipendentemente dal fatto che sia perpetrato dai terroristi o dallo Stato, è all’ordine del giorno. E infatti l’omicidio è diventato il mezzo principale attraverso cui lo Stato cerca di controllare le voci della libertà. Oggi tocca ai giornalisti, domani sarà la volta dei giudici. Per nessun altro gruppo i rischi sono mai stati più alti e la protezione minore. Perché andiamo avanti, allora? Me lo chiedo spesso. Dopo tutto anch’io sono un marito e padre di tre bambini. Anch’io ho delle responsabilità che vanno oltre la mia professione, si tratti di legge o giornalismo. Vale la pena di rischiare? Molte persone mi dicono di no. Gli amici mi consigliano di tornare in tribunale, dove certamente potrei vivere una vita migliore e più sicura. Altri, compresi leader politici di ogni schieramento, in varie occasioni hanno cercato di convincermi a entrare in politica, arrivando anche a propormi un ministero a mia scelta. Alcuni diplomatici, riconoscendo i rischi che i giornalisti devono affrontare, mi hanno offerto protezione e aperto le porte dei loro Paesi per andarci a vivere al sicuro. Se c’è qualcosa che non mi è mancata è stata proprio la possibilità di scegliere.

Ma c’è una voce che sta al di sopra di ogni alto ufficio, della fama, dei soldi e della sicurezza. Ed è la voce della coscienza. The Sunday Leader non ha mai cercato rifugio nel riproporre senza farsi troppe domande il punto di vista della maggioranza. Diciamolo pure: questo è il modo migliore per vendere i giornali. Al contrario, come i nostri commenti pubblicati nel corso degli anni ampiamente dimostrano, spesso diamo voce a idee che molte persone trovano sgradevoli. Per esempio abbiamo costantemente espresso la convinzione che, se il terrorismo separatista va sradicato, è molto più importante affrontare le cause che stanno alla radice del terrorismo. E abbiamo invitato il governo a guardare allo scontro etnico in atto nello Sri Lanka nel contesto della storia del Paese e non attraverso le lenti del terrorismo. Abbiamo anche alzato la voce contro il terrorismo di Stato nella cosiddetta guerra al terrorismo, e non abbiamo tenuto segreto il nostro orrore per il fatto che lo Sri Lanka sia l’unica nazione al mondo che ha l’abitudine di bombardare i suoi cittadini. Per queste opinioni siamo stati definiti dei traditori; e se scrivere queste cose significa tradimento, indossiamo questo distintivo con orgoglio.

Il nostro disgusto per la guerra non significa che sosteniamo le Tigri Tamil. L’Ltte è una delle organizzazioni più prive di regole e più assetate di sangue che abbiano infestato il pianeta. Non abbiamo alcuna esitazione a dire che deve essere sradicata. Ma farlo violando i diritti dei tamil, bombardandoli e sparandogli senza pietà, non è solo sbagliato ma è una vergogna per i singalesi, la cui pretesa di considerarsi i custodi del dharma è messa definitivamente in dubbio da questo comportamento selvaggio, in gran parte sconosciuto al pubblico a causa della censura.

La gente spesso mi chiede perché mi assuma questi rischi e mi dice che è solo questione di tempo e verrò ammazzato. Ovviamente lo so: è inevitabile. Ma se non parliamo ad alta voce ora, non rimarrà nessuno in grado di parlare per coloro che non possono, siano essi minoranze etniche, o emarginati o perseguitati. Un esempio che mi ha ispirato durante tutta la mia carriera giornalistica è stato quello del teologo tedesco Martin Niemöller. In gioventù era stato un antisemita e un ammiratore di Hitler. Quando però il nazismo era salito al potere in Germania l’aveva riconosciuto per quello che era: non erano solo gli ebrei quelli che Hitler voleva sterminare, ma chiunque avesse un punto di vista alternativo. Niemöller parlava ad alta voce e dal momento che dava fastidio dal 1937 al 1945 fu incarcerato nei campi di concentramento di Sachsenhausen e di Dachau e andò molto vicino alla condanna a morte. Mentre si trovava in carcere Niemöller scrisse una poesia che, dalla prima volta che l’ho letta da adolescente, mi è rimasta impressa in maniera indelebile nella mente:
Prima vennero per gli ebrei e io non dissi nulla perché non ero un ebreo. / Poi vennero per i comunisti e io non dissi nulla perché non ero un comunista. / Poi vennero per i sindacalisti e io non dissi nulla perché non ero un sindacalista. /Alla fine vennero per me e non era rimasto nessuno a parlare a nome mio.

Se anche dimenticaste tutto il resto, dovete ricordare almeno questo: The Leader è per voi, sia che siate singalesi, tamil, musulmani, appartenenti a caste basse, omosessuali, dissidenti o disabili. La sua squadra continuerà a combattere con lo stesso coraggio al quale siete abituati. Quanto a me Dio solo sa che ci ho provato.