Sono passati dodici mesi dagli attentati islamisti che causarono la morte di 258 persone tra Colombo, Negombo e Batticaloa. La dura denuncia del cardinale Ranjit: «Le indagini sugli attacchi hanno rivelato che ‘personaggi altolocati’ dell’attuale governo sarebbero coinvolti. Ma nessuna azione è stata intrapresa contro di loro»
È passato un anno dalla Pasqua di sangue del 2019. Ma lo Sri Lanka continua piangere i suoi morti e aspetta giustizia. Attende anche di conoscere quali siano le responsabilità degli apparati di sicurezza e della leadership politica per non avere fermato gli attentatori suicidi che il 21 aprile dello scorso anno provocarono 258 morti (tra cui 40 gli stranieri) e 500 feriti.
Quella mattina, diversi obiettivi furono attaccati da attentatori suicidi: gli alberghi Shangri-La, Kingsbury e Cinnamon Grand nella capitale Colombo e altri due hotel di minore rilevanza in altre località; devastate pure due chiese cattoliche, St. Anthony nella capitale Colombo e St. Sebastian nella vicina Negombo, la “piccola Roma” dello Sri Lanka. Colpita pure con gravi conseguenze la protestante Zion Church di Batticaloa, sulla costa orientale. L’intervento di esercito e forze speciali portò già nelle ore successive a identificare e additare come responsabili dei massacri cellule terroristiche di ispirazione islamica, mentre due giorni dopo arrivava sul sito jihadista Amaq la rivendicazione del Daesh, insieme alle foto del presunto organizzatore delle stragi e di sette esecutori, tutti indicati come “combattenti dello Stato islamico”.
In molti continuano a chiedersi le ragioni per una violenza all’apparenza insensata che ha colpito obiettivi indifesi. Per i segnali di precedenti gli eventi terroristici e per quanto raccolto da indagini e dichiarazioni di varia fonte locale e straniera, le ragioni sono anzitutto simboliche. Colpire gli alberghi ha inferto un duro colpo alla credibilità del Paese e a investimenti e turismo in ripresa dopo gli anni della guerra civile. Devastare i luoghi di culto cristiani e seminare la morte tra i fedeli riuniti per la Messa pasquale ha colpito una comunità non in grado e soprattutto non intenzionata a rispondere con la violenza a azioni violente e attivare così una nuova crisi nella già fragile società srilankese.
Una pacificazione della memoria, ma anche una chiara definizione delle responsabilità è oggi indispensabile in una realtà dove gli eventi di un anno fa hanno riacceso sospetti e ostilità non dissimili da quelli che alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso portarono, esacerbati, a un conflitto trentennale tra singhalesi – maggioritari e di fede buddhista – e tamil – di fede induista. Una guerra conclusasi nel maggio 2009 con i massacri di tamil nelle lagune settentrionali. Un conflitto brutale che fece 150mila vittime civili e militari ma di cui molti aspetti restano oscuri e molti responsabili politici ancora a piede libero e con ruoli di primo piano.
La subordinazione economica dei musulmani, seconda minoranza come consistenza sull’isola, spiega almeno in parte l’adesione al fondamentalismo e agli ideali jihadisti di alcune frange nella comunità islamica. Militanti del movimento National Thawheedh Jamaath e del gruppo Jamathei Millathu Ibrahim sarebbero stati organizzatori ed esecutori delle stragi di Pasqua, evidenziando la tendenza alla radicalizzazione di giovani musulmani educati all’estero, di ceto e mezzi economici elevati, spesso indottrinati al jihadismo fuori dal Paese d’origine.
«Ci sono rapporti sul trasferimento in corso di funzionari di polizia incaricati delle indagini sugli attentati dinamitardi suicidi», ha ricordato il cardinale Malcolm Ranjit, arcivescovo di Colombo, durante un discorso l’8 marzo nel Santuario di Nostra Signora di Lanka. «Le indagini sugli attacchi hanno rivelato che ‘personaggi altolocati’ dell’attuale governo sarebbero coinvolti e che nessuna azione è stata intrapresa contro di loro. Scenderemo in piazza con la nostra gente, indipendentemente dal fatto che si tengano o meno le prossime elezioni (il 25 aprile)».
Una presa di posizione dura da parte della massima autorità ecclesiale dello Sri Lanka, spinta da diverse ragioni. Il governo srilankese ha sostanzialmente mancato di affrontare l’impunità diffusa, la corruzione e lo smantellamento delle strutture che alimentano violazioni di diritti fondamentali e insicurezza. Inoltre vanno ancora chiarite le responsabilità dei servizi di sicurezza e delle autorità politiche nella mancata protezione di luoghi particolarmente esposti, nonostante le informazioni ricevute su un imminente attacco terroristico.