A Hong Kong il Capodanno cinese ha visto la «rivolta delle polpette di pesce» con scontri tra commercianti e polizia, accusata di subordinazione alle direttive di Pechino. La protesta nasconde un malessere profondo da parte degli abitanti della regione amministrativa speciale che potrebbe esplodere da un momento all’altro.
Dalla «rivoluzione degli ombrelli» dell’autunno 2014 alla «rivolta delle polpette di pesce» della prima notte del Capodanno cinese: Hong Kong si ritrova ancora una volta alla prese con una manifestazione violenta delle sue contraddizioni. Due anni fa l’occupazione per oltre due mesi da parte di movimenti giovanili e intellettuali sostenuti dalla politica democratica di aree cruciali della città, aveva acceso scontri e repressione con pochi uguali, scavando un solco profondo tra settori della cittadinanza e tra questi e le autorità. Le violenze di inizio settimana ne sono in parte uno sviluppo.
Tra le 10 della notte dell’8 febbraio e la mattinata del 9, la popolare e sovraffollata area di Mongkok, sulla Penisola di Kawloon, ha visto scene di guerriglia urbana che la relativa «pace sociale» degli ultimi 15 mesi sembrava aver cancellato. A far detonare la situazione, la proibizione ufficiale dei tanti piccoli commerci, inclusa la vendita di cibo, tradizionali nell’area per il Capodanno. Una proibizione a cui i diretti interessati ma anche centinaia di cittadini critici verso la decisione politica di limitare iniziative di folclore tipico dell’ex colonia britannica, hanno risposto con la violenza, ingaggiando scontri con la polizia antisommossa che hanno portato a decine di feriti delle due parti e al fermo di 54 manifestanti di ogni fascia d’età.
La polizia, accusata dal 2014 di essere meno impegnata sul fronte della sicurezza pubblica e di garantire un potere locale allineato a Pechino nella sua regione amministrativa speciale, è stata aggredita come non succedeva da decenni e ha reagito come sarebbe stato impensabile fino a pochi anni fa: sparando in aria per disperdere gli aggressori. Un atteggiamento, questo, oggi sotto inchiesta ufficiale, mentre alcuni dei fermati rischiano di finire sotto processo per il reato di rivolta che ha come pena massima 10 anni di detenzione.
La «rivolta delle polpette di pesce», tuttavia, segnala altro oltre alla difesa di interessi di commercianti senza licenza. Il ruolo negli scontri dei gruppi per la tutela dell’identità locale, in parte eredi dell’esperienza delle occupazioni di due anni fa, indica – in un contesto insieme cosmopolita ma cosciente della propria identità e perciò geloso delle proprie libertà e dei propri diritti – una irrequietezza verso l’autorità che veicola le indicazioni di Pechino. Anche però verso quella che viene percepita come una crescente «invasione» dei cinesi dell’entroterra che priverebbe gli abitanti di Hong Kong di spazio vitale, servizi e possibilità.
Non a caso, sono ora soprattutto i giovani a esprimere – sovente con modalità e forza in contrasto con le tradizionali espressioni della multiforme e attiva società civile locale – intolleranza verso i cittadini della Repubblica popolare cinese al punto, per alcuni, da auspicare l’indipendenza.
Le richieste di maggiore libertà politica sono state finora frustrate e con esse una maggiore autodeterminazione, ritenuta necessaria per fronteggiare il crescente divario di reddito, la scarsità di possibilità occupazionali, l’aumento fuori scala del costo delle abitazioni che minano il futuro dei giovani.
Davanti a questa situazione e alla luce dei fatti del Capodanno cinese, gli osservatori hanno registrato che se la «rivoluzione degli ombrelli» (quelli usati per proteggersi da pioggia, idranti e spray al peperoncino) fu sostanzialmente pacifica e l’atteggiamento dei partecipanti difensivo, questa volta a centinaia si sono mossi ponti allo scontro. Una realtà che il governo locale guidato da C.Y. Leung non può ignorare ma, si sottolinea, non può affrontare come un problema di ordine pubblico ma piuttosto valutandone le cause e su queste intervenendo concretamente.