Padre Franco Legnani racconta la sua nuova missione in una parrocchia rimasta “fantasma” per decenni, che porta ancora i segni delle bombe degli anni Settanta. Metafora del cammino della Chiesa cambogiana
Una grande chiesa abbandonata in fretta sotto i bombardamenti. Rimasta vuota e ferita per anni in mezzo alle risaie, al punto che non si sapeva più nemmeno con precisione dove si trovasse. Un luogo fisico e insieme un simbolo della comunità cristiana della Cambogia, rinata senza dimenticare le sue ferite. Si può descrivere così Ta Om, la nuova frontiera nel cuore della Cambogia dove oggi vive la sua presenza padre Franco Legnani, missionario del Pime.
Nativo di Saronno (Va), 63 anni, padre Franco – dopo un servizio svolto per alcuni anni in Italia per l’Istituto – nel 2019 è rientrato nel Paese dove è missionario dal 1994. Ora è al servizio della prefettura apostolica di Battambang, nella parte settentrionale della Cambogia: «Di base sono a Siem Reap – racconta – la città a nord del grande lago, in un’équipe pastorale insieme ad altri due gesuiti. Ma a me, in particolare, è stata affidata la cura delle comunità intorno a Ta Om, che si trovano a 75 chilometri dalla città, in mezzo alle risaie. Un’area dove proprio non c’è nient’altro…». Lì sorge anche la chiesa “ritrovata”. «L’hanno individuata una ventina d’anni fa – spiega il missionario del Pime -. Sapevano della sua esistenza, ma non c’era una strada per raggiungerla perché ci si arrivava dal fiume. Così hanno camminato attraverso le risaie e alla fine l’hanno vista: era diventata una stalla».
La chiesa di Ta Om fu costruita intorno al 1910. «Doveva essere la sede di una comunità cristiana molto folta – commenta Legnani -. Lo si vede dalle dimensioni dell’edificio, ma anche dalle statistiche inviate dai Mep (i missionari francesi delle Missions Etrangères de Paris, ndr) che nel 1938 parlavano della presenza di 700 cristiani. Poi, durante la guerra degli anni Settanta, fu bombardata dalle milizie filo-americane perché questa era una comunità di vietnamiti. Li consideravano indiscriminatamente fiancheggiatori delle milizie di Hanoi, che attraversavano la Cambogia. Proprio per questo nel restauro della chiesa abbiamo voluto che una parete conservasse i fori dei colpi delle mitragliatrici. Vuole essere un segno: questa è la madre delle chiese, ma anche il simbolo della sofferenza della nostra gente».
E la comunità cristiana che in quegli anni viveva a Ta Om? «Un po’ riuscirono a scappare – risponde padre Franco -. Tornarono in Vietnam navigando il fiume e poi risalendo tutto il Mekong, in un viaggio che deve essere stato epico. Altri sono stati certamente uccisi. Di fatto di quella comunità cristiana oggi non è rimasto più nessuno. Nella zona sorgono quattro villaggi, ma sono tutti abitati da cambogiani».
Con loro è ripreso il cammino. «Già prima che arrivassi io – spiega Legnani – la missione di Siem Reap aveva cominciato ad animare Ta Om. Io ho iniziato a venire in moto regolarmente, tutte le settimane, dalla città: sto con i bambini e con gli anziani che hanno molto bisogno, perché i giovani se ne vanno a cercare lavoro in Thailandia. Abbiamo aperto un asilo, l’unico della zona; per i ragazzi più grandi offriamo iniziative di educazione informale. In questi ultimi due anni, però, il Covid-19 ci ha costretto a ridurre molto tutte queste attività. In Cambogia il lockdown è rigido e l’emergenza continua ancora».
Ripartire dalla facciata crivellata di una chiesa: in fondo è la storia che padre Franco ha vissuto fin dall’inizio in Cambogia. «Nel 1994 – ricorda – ad aspettarmi a Phnom Penh c’era padre Toni Vendramin, scomparso lo scorso Luglio (vedi box a fianco). A quel tempo era ancora solo a Phnom Penh, fui io il secondo missionario del Pime destinato qui. All’inizio lavoravamo soprattutto con New Humanity, l’ong legata all’Istituto: dopo la tragedia c’era tanto bisogno di ricostruire anche materialmente la Cambogia: canali, sviluppo agricolo, aiuto a far ripartire le università. Poi, però, cominciai a sentire sempre più chiaro un grido: i brandelli di comunità cristiane dispersi durante gli anni dei khmer rossi avevano bisogno di qualcuno che stesse con loro, che condividesse la gioia di ritrovarsi di nuovo insieme riconoscendo che – dopo tante lacrime – Dio non li aveva abbandonati. Così dal 1997 con padre Toni ci dividemmo i compiti e io mi dedicai a tempo pieno alla pastorale».
Di comunità – prima dell’attuale chiesa di Ta Om – padre Legnani ne ha servite diverse in Cambogia: i villaggi di Kampong Thom e di Chnok Tru; poi la comunità di Kampong Chhnang, formata prevalentemente da vietnamiti che vivono una vita precaria sulle barche perché in Cambogia non hanno alcun titolo di proprietà sulla terra. Tante le storie rimaste impresse. Per esempio quella di Yej Yaat: «Quando arrivarono i khmer rossi – racconta – lei era la cuoca della missione. Sul tavolo della cucina c’era una corona del rosario: ha strappato il crocifisso e l’ha tenuto sempre con sé a rischio della vita. Quando l’hanno separata dal marito l’ha stretto e ha pianto. Mi diceva: questa croce è stata ciò che mi ha permesso di andare avanti».
Anche a distanza di tanti anni ci sono ferite che restano aperte in questa società. «Per il cambogiano i vietnamiti sono tuttora i nemici – spiega per esempio il missionario del Pime -. E vale anche tra i cattolici, che pure sono appena lo 0,15% della popolazione. A Kampong Chhnang la divisione si toccava con mano: persino i bambini difficilmente giocavano insieme. Per questo ho voluto un consiglio pastorale misto. Dicevo: “Il vietnamita sorride come voi, piange come voi, siete stati entrambi battezzati: Dio perdona il vietnamita come il cambogiano”. Quest’odio è alimentato dalla propaganda. Ma tra noi almeno qualche passo in avanti l’abbiamo fatto».
A Kampong Chhnang, accanto alla chiesa, c’era il centro per i disabili di New Humanity. Di fronte padre Franco ha voluto sorgesse una statua che raffigura l’episodio in cui Pietro davanti al tempio guarisce un uomo storpio dalla nascita (Atti 3,1-11): «Volevo che a tutti quelli che passano (e che nella quasi totalità non sono cristiani) fosse chiara una cosa – spiega -. Noi non siamo l’ong piena di soldi che arriva in Cambogia per investire. La ragione del nostro stare qui è un’altra: un amore incontrato che vogliamo condividere. Come – appunto – quello di san Pietro: “Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina”».
Da qualche settimana padre Franco è ritornato tra le sue risaie, portando con sé due sogni: «Quello più immediato è potermi trasferire stabilmente a Ta Om, perché c’è bisogno di una presenza fissa tra questa gente. Però – confida – ho anche un altro sogno nel cassetto: si chiama Oddar Meanchey, la provincia più a nord della Cambogia, proprio al confine con la Thailandia. È una zona molto bella, l’ho visitata varie volte; è anche quella dove ci sono tuttora più mine… Lì non c’è mai stata una presenza della Chiesa cambogiana, vorrebbe dire cominciare da zero». Per scoprire anche là un tesoro prezioso, in fondo alla risaia.
Sulle orme di padre Toni
Quest’estate – il 12 luglio – la comunità del Pime in Cambogia ha pianto il suo pioniere, padre Toni Vendramin, scomparso a 78 anni. Padre Toni nel 1990 era stato il primo sacerdote a rientrare stabilmente nel Paese dopo gli anni di Pol Pot. Nativo della provincia di Treviso, sacerdote dal 1969, padre Vendramin era stato per 15 anni missionario in Bangladesh, prima di partire per la Cambogia proprio quando il governo dei khmer rossi aveva lanciato i primi segnali d’apertura. «Le suore di Madre Teresa – ricordava – erano state invitate dal governo: volevano ritornare stabilmente, ma cercavano un sacerdote per accompagnarle». Arrivarono a Phnom Penh il 23 novembre 1990. Negli ultimi anni padre Vendramin aveva guidato la parrocchia di San Pietro, nella zona dell’aeroporto. «Venire qui – diceva l’anno scorso, tracciando un bilancio dei suoi 30 anni in Cambogia – è stata un’esperienza molto profonda. A Phnom Penh tutto è cambiato, ma a piccoli passi sta crescendo anche questa minuscola nostra Chiesa».