L’11 gennaio Taipei al voto per le presidenziali con la presidente uscente Tsai Ing-wen che cavalca il fallimento del modello «un Paese due sistemi». E Pechino aumenta la pressione anche attraverso i suoi alleati asiatici
L’ultima spallata è arrivata in maniera indiretta da Bangkok: in questi giorni il governo thailandese ha deciso di introdurre dal 1 gennaio il visto obbligatorio per i turisti provenienti da Taiwan anche per brevi soggiorni. Una scelta che appare andare contro la logica di un Paese che – nonostante l’arretramento in corso anche in questo settore – ha nel turismo un contributo prossimo al 20% del proprio Prodotto interno lordo. Sicuramente un provvedimento visto come punitivo, dato che gli stessi dati forniti dal ministero del Turismo di Bangkok segnala un totale di 700.356 turisti taiwanesi in arrivo, con un incremento del 24% rispetto allo stesso periodo del 2018. Nuove regole dalle chiare intenzioni discriminatorie rispetto alla maggioranza degli altri Paesi ai cui cittadini sono concessi permessi di ingresso fino a 30 giorni all’arrivo negli scali aeroportuali o ai posti di frontiera terrestre.
Sono in molti a vedere in questo passo una ritorsione indiretta verso l’isola da parte di Pechino, a cui il regime thailandese, ora in abiti civili e formalmente dotato di istituzioni democratiche ma erede del colpo di stato militare del maggio 2014 è sempre più legato. In quella che Pechino continua a considerare una “provincia ribelle”, minacciando un intervento di forza nel caso in cui la sostanziale indipendenza venisse ufficializzata, si avvicinano infatti le elezioni presidenziali dell’11 gennaio. Di rilievo non solo per l’amministrazione locale, ma anche viste come un referendum pro o contro la teoria “un paese due sistemi” che a Hong Kong starebbe dimostrando il suo fallimento ma che per Pechino è essenziale come passo per l’annessione. In questo senso, Pechino ha già applicato iniziative di pressione e minacciato una campagna diplomatica per togliere a Taipei i pochi alleati rimasti, oltre che spazio economico.
A incentivare la morsa di Pechino, anche l’esplicito rifiuto della presidente taiwanese in carica e candidata al secondo mandato, Tsai Ing-wen, del modello “un Paese due sistemi”, proprio indicando come a Hong Kong abbia dimostrato i suoi limiti portando l’ex colonia britannica “sull’orlo del caos”. Nel discorso per il Giornata della nazione, il 10 ottobre scorso, la signora Tsai ha difeso la sovranità di Taiwan, promettendo la salvaguardia della libertà e della democrazia davanti alle crescenti pressioni, anche militari, provenienti dalla Cina continentale. Non ha però indicato alcuna iniziativa indipendentista del suo Partito democratico progressista in vista del voto o successivamente a una eventuale vittoria.
Solo pochi giorni fa, il ministro degli Esteri del governo taiwanese, Joseph Wu ha segnalato l’ottimismo del governo rispetto a un allentamento dell’isolamento se continuasse la politica repressiva di Pechino all’interno e isolazionista verso l’esterno. “I governi negli Stati Uniti e in Europa – ha commentato – guardano con sempre maggiore attenzione a come Taiwan gestisce la pressione del Partito comunista cinese”.