Padre Giulio Berutti sull’uccisione del cooperante italiano: «Tra corruzione e radicalismo islamico la situazione del Paese si aggrava di anno in anno»
Da Dhaka (Bangladesh)
Padre Giulio Berutti, missionario del Pime e direttore delle Credit Unions (le banche per i poveri) della diocesi di Dinajpur, è un acuto osservatore della realtà socio-politica del Bangladesh. All’indomani dell’uccisione del cooperante italiano Cesare Tavella, commenta gli eventi per Mondo e Missione.
«Non bisogna fare gli allarmisti – attacca – ma questo omicidio è indubbiamente un campanello di allarme. La situazione economico-sociale del Paese va peggiorando di anno in anno. Da un lato c’è un governo sempre più dittatoriale, dall’altro problemi sempre più esplosivi. Pensiamo alla densità di popolazione del Paese, agli enormi problemi della capitale Dhaka (16 milioni di abitanti), alla corruzione che pervade l’intero sistema statale. Davanti a quest’ultimo fenomeno, così devastante, l’appello alla religiosità che vuole tutti onesti – appello lanciato dalle frange estremiste – è accolto con favore da molti. Il primo danno che fa la dittatura è la corruzione morale: è bene solo ciò che porta vantaggio al partito, non alla nazione in quanto tale».
L’uccisione di Tavella pare sia stata rivendicata dall’Is… «La questione è da chiarire. In ogni caso, in Bangladesh esistono minoranze islamiche molto estremiste. Un esempio: due anni fa erano in corso i processi ai collaboratori dei pachistani per la guerra del 1971. La prima sentenza fu di condanna a vita per i responsabili. Ma subito di scatenò una protesta, che vide scendere in piazza mezzo milione di persone per chiedere la condanna a morte. E così avvenne: in cassazione il verdetto venne modificato. La reazione degli estremisti islamici fu massiccia: mobilitarono un milione e mezzo di sostenitori da tutto il Paese per ribaltare la sentenza. Nella stessa occasione venne diffusa una lista di 84 fra blogger e giornalisti che dovevano essere messi fuori gioco, altrimenti ci avrebbero pensato loro a eliminarli. Poi la strage è cominciata e non è finita: gli ultimi casi sono di pochi mesi fa».
Oggi il mondo sembra aver aperto gli occhi sul Bangladesh, a lungo ritenuto Paese islamico moderato. In realtà qui la deriva fondamentalista è iniziata da anni. «Già negli anni ’70 il primo dittatore, marito di Khaleda Zia, oggi leader dell’opposizione, per consolidare il potere ha aperto la porta ai partiti islamici. Ha modificato la Costituzione inserendo il richiamo ad Allah “Nel nome di Dio onnipotente e misericordioso…”. Solo nel 1977 i Paesi islamici, alla luce di queste mosse del governo (soprattutto dopo che l’islam è stato dichiarato religione di Stato), hanno riconosciuto l’indipendenza del Bangladesh dal Pakistan. A partire da allora, dall’Arabia Saudita e dai Paesi del Golfo sono stati riversati sul Paese soldi in gran quantità. Noi missionari ce ne siamo accorti perché abbiamo visto spuntare come funghi nei villaggi moschee in muratura che non potevano essere certo costruite con le modeste entrate dei villaggi. Quindi quanto accade oggi non è che l’onda lunga di un fenomeno iniziato anni fa e cresciuto col tempo».
Di recente, il Bangladesh ha assistito all’uccisione di una serie di blogger, da parte di un’organizzazione islamica estremista. Cosa si sa di loro? «Alcuni sono stati uccisi, altri sono andati all’estero, altri ancora vivono nascosti, cambiano posto spesso, cercando di non avere abitudini fisse. Ciò che li accomuna è il secolarismo, ossia la richiesta di una netta separazione tra Stato e religione. Alcuni di essi, inoltre, si dichiarano esplicitamente atei perché non li convince la testimonianza di fede dei musulmani, i quali ritengono offensiva questa posizione: anzi, una vera e propria provocazione, meritevole di morte».