L’EDITORIALE
In India e Bangladesh la realtà è cambiata moltissimo dai tempi delle «missioni». ma i missionari restano. Perché?
La presenza del Pime in India e Bangladesh, che ho visitato di recente, risale a poco dopo la metà dell’Ottocento. Le cose sono cambiate moltissimo dai tempi delle “missioni”. Ma i missionari restano. Perché? Vale forse la pena puntualizzare il senso di questa permanenza quando il compito che era stato loro storicamente affidato – la fondazione della Chiesa (plantatio ecclesiae) – si può dire sostanzialmente realizzato. E magari già da alcuni decenni.
I missionari rimangono per quattro motivi principali.
Il primo è l’aiuto al consolidamento. Tra i tanti, posso citare il caso del Bangladesh, almeno per alcune diocesi, e la Papua Nuova Guinea. La Chiesa è certamente fondata e tutte le strutture materiali e spirituali realizzate, il laicato magari anche abbastanza attivo; ma i sacerdoti locali sono pochi, a volte insicuri, non troppo preparati. Delle ventidue diocesi della Conferenza episcopale di Papua Nuova Guinea e Isole Salomone, nel Pacifico, solo sei sono rette da vescovi locali.
Il secondo motivo per i missionari di rimanere è l’animazione missionaria e vocazionale: aiutare le stesse giovani Chiese ad aprirsi e servire il mondo, anche quando devono donare dalla propria povertà.
Né va ignorata una terza e molto importante ragione di presenza, perché anche là dove la Chiesa è formalmente stabilita, le aree e i gruppi umani ancora privi di un qualsiasi contatto cristiano rimangono immensi nei numeri e nell’estensione geografica soprattutto in Asia. Non pochi missionari avvicinano questi gruppi nei modi più svariati: insegnamento, impegno sociale, dialogo interreligioso, lavoro in fabbrica, blog, siti e social network… Di solito non si tratta di una presenza volta a costruire la tipica comunità o parrocchia cristiana, ma a testimoniare lo stile di vita riconciliato e misericordioso del Vangelo.
Recentemente, poi, sono stato colpito da una battuta quasi spontanea, ma profonda di padre Fernando Milani, nuovo superiore del Pime nelle Filippine. Commentando i suoi quindici anni di ministero nella diocesi di San José di Antique, mi ha fornito una quarta motivazione per cui almeno per qualcuno val la pena di rimanere: «Di per sé – dice padre Milani – non avevano assoluto bisogno di me per gestire le comunità che mi hanno affidato in questi anni. Ma un missionario in mezzo a loro è il segno che la Chiesa è più grande di una diocesi, un prete e un vescovo non sono solo per la gente tra cui sono nati. Si testimonia l’universalità della Chiesa».
Sarebbe sbagliato però continuare a rimanere (tutti) là dove si è lavorato per decenni. Guardare a nuove aree e gruppi umani, per quanto con modalità diverse da quelle del passato, è condizione stessa di sopravvivenza e di senso delle comunità missionarie. Nonché di fedeltà al mandato mai revocato di “andare alle genti”.