Thailandia, due anni di «pacificazione» con tanti dubbi

Thailandia, due anni di «pacificazione» con tanti dubbi

La delusione crescente nel vedere che gli uomini in divisa hanno eluso le speranze di moralizzazione e di sviluppo, potrebbe avere conseguenze imprevedibili in una situazione instabile come quella thailandese

 

Un potere che cerca di consolidarsi per un tempo prolungato e senza opposizione; instabilità economica e sociale in aumento nonostante il controllo di quello stesso potere. Con queste due sole certezze la Thailandia ha passato il 22 maggio la boa del secondo anniversario del colpo di Stato del 2014, il tredicesimo portato a termine con successo su 21 tentativi dal 1932, quando il Paese transitò dalla monarchia assoluta a quella costituzionale sotto tutela militare.

La pacificazione imposta da oltre ventiquattro mesi, con un misto di convinzione e azioni coercitive in base a leggi scritte dal regime e attuate da organismi che dal regime sono approvati e che in parte con esso condividono i ranghi, doveva portare il Paese fuori da una crisi sociale al limite dello scontro aperto tra fazioni e fuori anche da uno stallo istituzionale e economico che è una minaccia diretta alla seconda economia regionale. Invece, non solo la situazione interna resta tesa e divisa, il Paese arranca e i proclami ufficiali cadono sempre più nel vuoto di azioni inesistenti; ma la pressione internazionale e le conseguenze locali che aggravano i mancati interventi strutturali hanno portato la Thailandia allo stallo.

La quotidiana sequenza di ordinanze, proclami e proposte (a volte smentite dopo solo poche ore), l’uso dell’art. 44 della costituzione provvisoria scritta dai generali che dà al capo del governo (e della giunta militare) il potere indiscriminato e nello stesso tempo garantisce a lui e ai militari l’intoccabilità attuale e futura per le conseguenze, l’abuso della legge che dovrebbe garantire immagine e attribuzioni della monarchia usata per tacitare il dissenso con pesanti pene detentive, le iniziative di “rieducazione” per gli studenti che manifestano dissenso verso il regime che si aggiungono a quelle applicate finora contro centinaia di personalità politiche, attivisti, intellettuali… Sono solo alcuni esempi di una situazione sicuramente arbitraria e illiberale per i parametri internazionali ma indicata dal regime come “funzionale” alla realtà locale.

La mancanza di diritti, libertà e soprattutto di iniziative che confermino la proclamata buona volontà di agire per risolvere problemi persistenti e non di secondo piano – come tratta di esseri umani, schiavitù per lavoro, sfruttamento dell’ambiente anche in aree non territoriali, mancato rispetto di trattati e convenzioni firmati in passato – vanno isolando il Paese e pongono con le spalle al muro sul piano internazionale chi governa la Thailandia e i suoi 68 milioni di abitanti.

L’impegno sbandierato nella lotta alla corruzione e al malaffare è stato tra i fattori che hanno garantito per un biennio l’accettazione dei militari al potere; ma ora l’impegno prioritario sembra essere una pressione crescente sulla popolazione affinché approvi con un referendum il prossimo 7 agosto la nuova costituzione e il controllo dei generali e dei gruppi di interesse a loro legati. La delusione crescente nel vedere che gli uomini in divisa hanno eluso le speranze di moralizzazione e di sviluppo, potrebbe però avere conseguenze imprevedibili in una situazione instabile come quella thailandese.

Crescono infatti le aree di opposizione, ma ancor più di disillusione, nonostante il controllo del regime, che cerca di imporre anche una versione locale del Grande Firewall cinese per isolare la propria rete internet da quella globale. Pesano le crescenti difficoltà economiche che si traducono in debiti generalizzati per le famiglie, la disoccupazione qualificata, il debito pubblico a oltre l’80 per cento del Pil, il crollo degli investimenti stranieri e l’impossibilità di finanziare progetti pubblici indispensabili,. Crescono di conseguenza frustrazione e povertà che rischiano di incentivare xenofobia e aggressività verso gli stranieri, a partire da tre milioni di immigrati per lavoro dai Paesi confinanti.

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