Il primo ministro e generale Prayuth dice di aver incassato da Trump compressione e appoggio alla sua «road map» verso la democrazia. Intanto però non dà certezze sul voto nemmeno per il 2018
Il 2 ottobre, il primo ministro e generale thailandese Prayuth Chan-ocha ha incontrato a Washington il presidente Donald Trump. Un colloquio breve che ha sollevato più interrogativi di quanti non ne abbia risolti.
Nei giorni successivi i media thailandesi sono stati prodighi di foto con sorrisi e strette di mano tra i due leader, riferite a un incontro durato poche decine di minuti. Prodighi anche di testi sui “successi” ottenuti da Prayuth, che è arrivato a definire “un mio vero amico” il presidente Usa. Niente di equivalente a Washington, dove la visita è passata pressoché ignorata sui mass media americani e globali, se non per annotazioni riguardo all’opportunità di accogliere al massimo livello quello che nei fatti è un generale golpista che a oltre tre anni dalla presa del potere coordina una giunta militare e un governo formalmente “civile” ma composto in maggioranza da militari, ex militari e elementi delle élite tradizionali. Le stesse che hanno incentivato la presa di potere degli uomini in divisa il 22 maggio 2014. L’ultima dalla trasformazione nel 1932 della monarchia da assoluta a costituzionale, un evento che ha consentito il controllo di fatto dei generali sul Paese in associazione con l’aristocrazia e (in decenni recenti) le nuove oligarchie, in un connubio tra gli antichi privilegi soprattutto terrieri, monopolio di poche famiglie thai e i nuovi (produttivi e finanziari) in mano a cinesi naturalizzati.
Tra le dichiarazioni post-visita di Prayuth c’è stata anche la comprensione e l’appoggio statunitense alla sua “road map” verso le elezioni. Che Trump e la sua amministrazione preferiscano vedere la Thailandia avviata verso una normalizzazione istituzionale dopo un decennio di crisi continua e di tutela armata, è certo. Che siano pronti a togliere le pur blande sanzioni applicate dopo l’ultimo golpe, incluso lo stop a forniture militari, è altrettanto chiaro. Ma a contrastare con l’ottimismo ufficiale del governo thailandese vi sono due questioni.
La prima è la forza delle organizzazioni che negli Stati Uniti e altrove continuano a puntare e il dito contro gli abusi dovuti al regime, compresi quelli che sembrano istituzionali nel Paese e che finora solo la pressione internazionale ha evidenziato: lo sfruttamento della manodopera straniera, la mancata regolarizzazione degli immigrati, le paghe decurtate, gli abusi e anche la violenza nei settori agricolo, nella pesca e nell’edilizia. E poi la tolleranza verso la tratta e lo sfruttamento degli esseri umani, locali e stranieri, leggi lacunose o facilmente aggirabili riguardo la tutela di donne, dei minori, delle minoranze; l’immenso dislivello di redditi e opportunità; la piena amnistia per i militari per ogni abuso passato, presente e futuro; l’inerzia davanti alla corruzione rampante e ad attività che gli secondo gli standard internazionali sono criminali e di cui sono in Thailandia sono protagonisti proprio settori dello Stato e forze di sicurezza.
La seconda questione – più pragmatica ma per Trump di maggior rilievo – è lo squilibrio della bilancia commerciale che vede un saldo a favore di Bangkok di 11,5 miliardi di dollari nei primi sette mesi dell’anno. Una situazione che risente delle alte tariffe applicate in Thailandia all’import, di fenomeni di triangolazione e di dumping, di produzioni a prezzo concorrenziale basate sullo sfruttamento di manodopera e risorse; delle limitazioni alle iniziative straniere nel paese.
In sostanza, i colloqui si sono conclusi con un nulla di fatto, se non forse la riapertura di un limitato canale di vendita di armamenti, in primis elicotteri, che per Washington è importante anche per contrastare la crescente influenza di Pechino sulla dirigenza thailandese. Quest’ultima ha ben presente i rischi di un abbraccio troppo stretto con quello che di fatto è un avversario commerciale e a volte un ingombrante vicino, ma ne apprezza la mancanza di contropartite in diritti umani, democrazia e tutela dei lavoratori per il sostegno alla modernizzazione delle proprie infrastrutture e forze armate e a sostegno dell’export in affanno.
Interessante notare la polemica avviata in Thailandia subito dopo il rientro di Prayuth. Se per l’amministrazione Usa, infatti, il premier-generale avrebbe confermato il voto certo per il prossimo anno, per il governo si sarebbe trattato invece di un malinteso: il voto ci sarà solo quando sarà completata la trama legislativa necessaria. In base – si sostiene – alla road-map da tempo individuata dal regime senza mai dare però una scadenza certa. Annunciate per il 2015, il 2016, per l’anno in corso e, fino a poche settimane fa, entro il 2018, le elezioni tornano dunque nel limbo.
La Thailandia – in un tempo per molti doloroso e incerto che ha incluso la scomparsa del re un anno fa e il lungo periodo di lutto fino alla cremazione, in programma il 26 ottobre prossimo – resta sospesa. Sono in molti gli osservatori a ritenere che il Paese rischia di trovarsi presto a un bivio che potrebbe portarlo indietro di decenni e all’isolamento oppure verso convulsioni imprevedibili. Il regime a sua volta è pressato da un lato dal proprio interesse a completare una restaurazione che sta presentando ostacoli e resistenze, dall’altro dal rischio che – mancando alla promesse di moralizzazione, concordia e benessere e perseguendo ulteriormente la repressione – incentivi una reazione.