Thailandia: le proteste, la repressione e i «poteri forti» in bilico

Thailandia: le proteste, la repressione e i «poteri forti» in bilico

L’esercito e la monarchia – screditata da Rama X – sono oggi sotto assedio per la richiesta dei giovani di una svolta radicale a Bangkok. E anche la ristretta oligarchia monopolista sta accusando i primi colpi della crisi economica

 

Da mercoledì 14 ottobre, in Thailandia, la protesta ha fatto un salto di qualità. Uscita dalle università, si è diffusa e intensificata negli ultimi mesi nella consistenza, nelle tattiche ma anche nei toni. Affrontata con maggiore fermezza, soprattutto quando ha circondato il Palazzo del governo a Bangkok minacciando l’occupazione, sia quando si è trasferita nelle aree che sono il cuore commerciale e finanziario della capitale e del Paese.

Significativa l’imposizione giovedì dello stato di emergenza, confermata dal governo venerdì, ma anche la possibilità di un coprifuoco qualora fosse necessario, dichiarata dal primo ministro – l’ex generale golpista Prayut Chan-ocha, che come la maggior parte dei suoi ministri e membri del partito filo-militare al potere ha lasciato la divisa ma non la volontà di perpetuare la presa militare sul Paese che dura dal 1932. I militari e i loro proxy nella politica e al governo sanno che il Paese sta esaurendo la tolleranza verso un controllo che ha solo alimentato corruzione, malaffare, disuguaglianze e che anche in questo tempo di crisi pandemica mostra inefficienza e insensibilità. Sanno anche che la democrazia partecipativa è stata tropo a lungo negata permettendo che l’insoddisfazione emergesse senza affrontarne le cause, se non con la repressione. Come dieci anni fa, quando lo stesso Prayut era a capo dei reparti che dispersero con le armi a Bangkok la protesta delle Camice Rosse uccidendo decine di manifestanti.

La situazione allora era stata incentivata dal rifiuto del risultato delle tornate elettorali successive al colpo di stato del settembre 2006, oltre che dal costante braccio di ferro tra l’establishment e l’ex premier Thaksin Shinawatra in esilio dal 2008. Oggi invece a premere per un cambio radicale nel Paese sono anzitutto i giovani e non a caso una parte consistente dei leader di una protesta senza capi o referenti riconosciuti sono studenti universitari o accademici.

La Thailandia si trova davanti anche un dilemma che mai si era presentato nel secondo dopoguerra: il re Maha Vajralongkorn (Rama X) succeduto al padre deceduto nell’ottobre 2016, non solo non è amato ma viene anche visto in modo negativo per il carattere e le abitudini discutibili, per la rapacità nel gestire beni e potere e, infine, per la mancanza di empatia verso una popolazione da cui pretenderebbe rispetto e onori ma che relega di fatto a rapporti medievali. Questo contrariamente al genitore, Bhumibol Adulyadej, che sul trono per un settantennio (peraltro raramente opponendosi al controllo dei militari sulla vita pubblica) si era guadagnato una devozione quasi assoluta spendendosi in attività caritative, progetti di sviluppo sostenibile e sacrificando per la nazione molta della sua vita personale. Arroganza e dissolutezza sembrano invece le caratteristiche del sessantottenne sovrano in carica, che vive più nel “buen retiro” europeo (in Baviera, per l’esattezza) con figlio, moglie ufficiale e concubine, piuttosto che nel caos urbano di Bangkok o nella polvere e fango della Thailandia rurale, entrambe prostrate da tempo da una crisi economica prima ancora che pandemica.

Un contesto in cui il rapporto tra monarchia e forze armate è diventato problematico, anziché opportuno (soprattutto per le seconde). Da un lato, Rama X ha accentrato potere e denaro (i beni della casa reale stimati in almeno 40 miliardi di dollari sono stati trasferiti per decreto sotto il suo controllo, come pure alcuni reparti militari d’élite), in qualche modo togliendoli al controllo dei generali che avveniva attraverso il Consiglio privato. Dall’altro i militari soffrono con sempre maggiore disagio la loro associazione con una monarchia screditata che per la prima volta viene sottoposta a critiche pesanti da parte dell’opinione pubblica in piazza, sui vecchi e nuovi media e – in modo crescente – all’estero.

Due dei “poteri forti” del Paese sono quindi sotto assedio. Il terzo, una ristretta oligarchia monopolista composta da poche famiglie, sta accusando i primi colpi della crisi economica e rischia di vedere crollare qualcosa di più che introiti e dividendi se la società civile troverà modo di portare avanti le riforme necessarie al Paese per farlo uscire da un medioevo culturale e sociale che – oltre la narrazione di una nazione prospera, gestita benevolmente, superiore per civiltà a paesi vicini e lontani – segna una delle società più ineguali al mondo.