Il Tibet è una realtà di cui il mondo va dimenticandosi, nonostante la diaspora di centinaia di migliaia di tibetani in molti Paesi e l’instancabile ruolo di testimone dell’ottantatreenne XIV Dalai Lama
Qualche giorno fa con il suicidio di un ventitreenne nella prefettura autonoma di Qian e Ngaka sono saliti a
153 i casi noti di immolazione con il fuoco di tibetani che protestano contro la repressione religiosa e
culturale a cui sono sottoposti nella varie regioni in cui è stato diviso il Tibet storico dopo
l’annessione definitiva alla Cina nel 1959. Il primo caso fu quello del monaco Tapey, che il 27 febbraio
2009 si diede fuoco nel monastero di Kirti e in maggioranza monaci sono stati anche gli autori successivi di questo gesto, perché spesso è nato dalla chiusura e distruzione di templi e monasteri o dall’intromissione delle autorità nella loro gestione.
Il Tibet è una realtà di cui il mondo va dimenticandosi, nonostante la diaspora di centinaia di migliaia di tibetani in molti Paesi e l’instancabile ruolo di testimone dell’ottantatreenne XIV Dalai Lama. Davanti alla crescita del ruolo economico e strategico della Repubblica popolare cinese, molti governi un tempo sponsor della causa tibetana hanno finito col limitare il loro sostegno. Non più a favore del ritorno all’indipendenza del Tibet – nel frattempo diviso in più regioni e provincie – a cui peraltro lo stesso Dalai Lama e buona parte della leadership tibetana hanno di fatto rinunciato, ma anche alla tutela di una civiltà antica che ha saputo esprimere valori spirituali e culturali unici in un’area tra le più
inospitali del pianeta.
Nella stessa India, che ha accolto la maggior parte dei profughi in fuga dalla repressione cinese e ospita il governo tibetano in esilio nella cittadina settentrionale di McLeodganj, le attività politiche e propagandistiche sono severamente limitate per evitare attriti con il potente vicino cinese.
Questa situazione – come pure un incremento della “normalizzazione” del Tibet che passa anche da un’immigrazione di cinesi Han che va modificando sostanzialmente l’equilibrio demografico, lo sfruttamento delle risorse naturali, il disincentivo a ogni espressione religiosa che non sia funzionale alle esigenze del governo e del Partito comunista che sono anzitutto di controllo – sta portando al moltiplicarsi di atti di aperta insofferenza verso il controllo ufficiale.
Azioni abitualmente censurate e che solo a distanza di tempo sono divulgate fuori dal territorio cinese dai gruppi di sostegno alla causa tibetana. Se la censura ufficiale rende ancora difficile conoscere la situazione reale del Tibet, le punizioni verso le fonti non autorizzate sono severe. A questo si aggiunge il fatto che l’autocensura di molti esperti, anche stranieri, riguardo agli episodi di opposizione alla gestione cinese, soprattutto alle immolazioni con il fuoco, è andata crescendo negli anni in parallelo con il ruolo sempre più influente di Pechino nel mondo.
Come sottolineato di recente da un accademico cinese, «la nuova generazione di tibetani è nata dopo le riforme avviate da Deng Xiaoping e la politica della “porta aperta”. Non hanno patito le sofferenze dei loro padri e quindi risulta difficile capire perché resistano in modo tanto determinato. Non sembra esserci una riflessione su questo nella dirigenza cinese».
Non va ignorato il ruolo della religione nelle proteste estreme dei tibetani, perché la repressione del buddhismo lamaista è andata di pari passo con l’espansionismo e la sinizzazione del Tibet. La persecuzione religiosa è stata anche alla base del movimento di protesta del 2008 in cui i monaci hanno avuto un ruolo centrale e di cui la lunga sequenza di immolazioni è una conseguenza, nell’impossibilità di superare altrimenti la “cortina di bambù” che circonda il Tibet e farne conoscere all’esterno la realtà.