Nelle elezioni presidenziali nel Paese nato solo quindici anni fa l’ex leader guerrigliero avrebbe raccolto il 60 per cento dei consensi. Davanti a lui la sfida di uno sviluppo che affranchi davvero Timor Est dai protettorati di fatto
Otto candidati ma un solo outsider per la presidenza della piccola repubblica di Timor Est, seconda roccaforte cattolica dell’Asia dopo le Filippine. Sospesa tra Asia e Oceania e, ancor più, sul proprio destino incerto a quindici anni dall’indipendenza, ha avuto nel voto di lunedì scorso la possibilità di concretizzare quella stabilità senza la quale uno sviluppo autonomo e una indipendenza reale restano impensabili.
Al centro di questa possibilità, un personaggio come Francisco “Lú-Olo” Guterres, 62enne ex leader guerrigliero ai tempi del più che ventennale conflitto con l’Indonesia, subentrata con la forza all’antico potere coloniale lusitano nel 1976 e costretta a lasciare la presa sul Paese con un referendum nel 1999 sotto la pressione internazionale. A lui è andato attorno al 60 per cento dei voti: Una vittoria significativa che, se confermata ufficialmente, gli eviterà il ballottaggio di aprile e lo indirizzerà direttamente verso l’avvio del mandato quinquennale a maggio. Un risultato di buon auspicio per evitare conflittualità e difficoltà temute per l’accesa contesa elettorale del prossimo luglio, quando si voterà di nuovo per il Parlamento unicamerale nazionale.
Guterres ha avuto il pieno appoggio del Fretilin, partito erede del principale movimento indipendentista negli anni dell’occupazione portoghese e poi indonesiana, ma anche di Xanana Gusmao – altro leader storico del movimento indipendentista – slegato da un ruolo partitico ma dal 2015 premier di un governo che, oltre al Fretilin, include il piccolo Partito democratico, il cui candidato alla carica di capo dello Stato, il 53enne Antonio da Conceicao, attuale ministro dell’Istruzione, è l’astro nascente della seconda generazione di politici post-indipendenza.
La provenienza di Guterres dai ranghi della guerriglia ne fa un elemento di continuità con il passato, il suo ruolo nelle ultime due legislature ne fa un politico affidabile, infine l’età e l’esperienza lo rendono in grado di condurre un dialogo ampio con le forze politiche e sociali ma ancor più di aprire le porte al ricambio generazionale nel potere locale, finora monopolizzato da personalità di tutto rilievo e in alcuni casi – come José Ramos-Horta, ex presidente e premio Nobel per la Pace nel 1996 per il suo impegno indipendentista nonviolento insieme all’ex amministratore apostolico di Dili, mons. Carlo Felipe Ximenes Belo – anche di prestigio internazionale.
Non una carica dagli ampi poteri, quella di presidente est-timorese, ma sicuramente l’istituzione di riferimento nei tempi di crisi. Una condizione permanente per il piccolo territorio di soli 15.410 chilometri quadrati diviso in due tronconi, occidentale e orientale con 1.261 milioni di abitanti complessivi e con un tessuto sociale frammentato in clan, etnie, interessi, feudi, fedi, lingue. Un Paese nato ufficialmente nel maggio 2002 ma che ha ancora come valuta di maggiore diffusione il dollaro americano, un’economia sostenuta dagli aiuti internazionali e risorse economiche che vanno riducendosi nell’incapacità di elaborare una politica di gestione dei vasti giacimenti offshore di gas e di petrolio insieme ai potenziali partner internazionali. Una condizione in cui finora ha giocato prepotentemente il protettorato internazionale, che ha spianato la strada a infrastrutture e istruzione ma anche a disaffezione e disinteresse. Insieme all’ingombrante presenza del vicino australiano che ha contribuito all’indipendenza e al mantenimento di una pace relativa negli anni successivi ma che reclama un ruolo primario nell’individuazione e nello sfruttamento delle risorse naturali, soprattutto sottomarine.