Il Giubileo che sta per iniziare visto dalla baraccopoli all’estrema periferia di Bangkok dove padre Adriano Pelosin ha aperto la Casa della misericordia: «Solo chi si sente peccatore non ha paura dell’amore di Dio»
«Apriamo i nostri occhi per guardare le miserie del mondo, le ferite di tanti fratelli e sorelle privati della dignità, e sentiamoci provocati ad ascoltare il loro grido di aiuto. Le nostre mani stringano le loro mani, e tiriamoli a noi perché sentano il calore della nostra presenza, dell’amicizia e della fraternità».
Così scrive papa Francesco nella Misericordiae Vultus, la bolla di indizione del Giubileo che sta per cominciare. Siamo ormai alla vigilia dell’8 dicembre – il giorno in cui Bergoglio aprirà in San Pietro la Porta Santa, simbolo di questo tempo straordinario – ed è proprio da uno di questi luoghi dove la misericordia si fa carne che vogliamo guardarlo. Da una periferia che non diventerà mai un luogo di pellegrinaggi, dove i cristiani stessi sono un gruppo piccolissimo e che pure custodisce una Casa della misericordia che ha molto da dire sull’Anno Santo che sta per iniziare.
Si chiama proprio così – infatti – il piccolo centro che padre Adriano Pelosin, missionario del Pime in Thailandia dal 1978, ha aperto l’anno scorso a Wat Sake, una delle baraccopoli di Pathumthani, nell’estrema periferia di Bangkok. Quattro mura per portare un po’ di aiuto in un distretto segnato da una povertà non solo materiale ma anche morale. Con uno stile dove un amore gratuito, incondizionato, a immagine di quello di Dio, diventa un annuncio di salvezza.
«Il Giubileo della misericordia e tutto quanto papa Francesco sta proponendo nel suo magistero su questo tema, sono un grande incoraggiamento per noi qui – commenta da Pathumthani padre Pelosin -. La misericordia è il volto attraverso cui Dio si fa conoscere a tutti. E la missione è proprio questo: provare a riconoscere e a mostrare questa abbondanza d’amore soprattutto a coloro che non si sentono voluti, amati o compresi da parte della società. Essere destinatari di questo amore gratuito che Dio stende su tutti»
Padre Adriano, ma che cosa cambia nella vita di un missionario quando lui stesso impara a riconoscersi come un uomo perdonato?
«È la mia storia personale. Fu durante un ritiro spirituale, un mese ignaziano di esercizi negli Stati Uniti: mi resi conto che tutto l’impegno che io missionario mettevo per osservare le regole intorno a cui avevo costruito la mia religiosità era solo una maschera. Inseguivo la religione della legge, guardavo a Dio come a un giudice che si aspetta da me la perfezione. Ma poi – quando mi guardavo dentro – vedevo tutta la mia miseria e questo generava un conflitto profondo. Ci stavo male, vedevo la contraddizione tra la legge e l’amore. Ed è stato allora che ho sentito chiara la voce di Dio che mi diceva: “Io ti amo con i tuoi peccati”. È stato un momento particolarissimo. Ho sentito che dovevo cambiare, dovevo accogliermi davvero come un peccatore amato e partire da lì vivere la mia vocazione. E non è stato affatto facile».
Si può avere paura anche della misericordia?
«La misericordia la può accogliere solo chi si sente peccatore. Gli altri non sanno nemmeno che cos’è. Ma ciò che da missionario ho scoperto è che i poveri sono quelli che hanno meno paura della misericordia. Tra gli ultimi, tra quelli che sono più immersi nelle situazioni di debolezza, c’è più disponibilità ad accogliersi così come si è, senza maschere, senza condanne da pronunciare. Con loro – qui nelle baraccopoli dell’estrema periferia di Bangkok – ho cercato di vivere la mia vita di missionario facendo proprio della misericordia la guida del mio cammino. Non tanto a parole, ma con i gesti, accogliendo tutti questi fratelli con comprensione e affetto».
Nel contesto in cui vivi in Thailandia sono quasi tutti buddhisti: che cos’è per loro la misericordia?
«In questa cultura non c’è il senso della misericordia. Nella visione buddhista il peccato ti porta comunque alla legge del kharma. È un male dal quale non può venire nulla: mi devo semplicemente rassegnare, sapendo che alla prossima rinascita dovrò patire tanto, fare penitenza per scontare le colpe commesse nella vita precedente. Dire: “io ti amo con i tuoi peccati” qui diventa un messaggio rivoluzionario, che rompe completamente questa logica. Diventa una forza di liberazione».
Chi sono le persone che frequentano la Casa della misericordia a Wat Sake?
«È la gente che abita queste baraccopoli, attraversata da immense ferite. Ad esempio qui vivono tante nonne con i nipotini piccoli di cui devono farsi carico, perché i genitori sono in prigione oppure tossicodipendenti o malati di Aids. Ci sono anche tante persone che hanno subito gravi ingiustizie: ho in mente una vedova che ha perso un figlio in un incidente stradale e si è vista portare via tutto il risarcimento dall’avvocato a cui si era affidata… Quando si è poveri è facile essere anche vittime di ingiustizie».
Che cosa fate per queste persone?
«Ci prendiamo cura di loro: stiamo coi ragazzi, li portiamo a incontrare i loro genitori in carcere o all’ospedale. Abbiamo anche ricostruito una ventina di case, per alcune di queste famiglie. Ci adoperiamo per fornire un po’ di assistenza legale a chi ne ha bisogno. E poi ci ritroviamo con alcune di queste persone a leggere il Vangelo, una volta alla settimana. Siamo una ventina di persone, attraverso la Parola di Dio cerchiamo di scoprire insieme che cos’è la misericordia».
Insieme anche a persone non cristiane?
«Certo, sono tutte persone buddhiste e buddhiste rimangono. Sono figli di Dio. Li guardo nella prospettiva del giorno finale, quando tutti saremo insieme nel mistero del Padre. Figli amatissimi, lavati anche loro nel sangue di Cristo e amati senza condizioni. Ma leggiamo la parola del Vangelo perché ci aiuta tutti a riprendere in mano la nostra vita e a ricostruirla a partire dalla misericordia. Attraverso l’amicizia che abbiamo coltivato con i monaci buddhisti questo non è visto come proselitismo: la Casa della misericordia stessa sorge su un terreno del Tempio buddhista, siamo molto legati».
E quali frutti di liberazione sta dando questo cammino?
«I cambiamenti li si vede nella vita delle persone: tante zavorre di male cominciano a cadere. Ad esempio stanno imparando a perdonarsi di più tra di loro: prima, in un ambiente così segnato da tante ferite, c’erano sempre cose da rinfacciarsi. Anche i nostri incontri a volte finivano in litigi… Non è facile liberarsi dal passato; ma a volte vedi che succede e a quel punto la loro vita rinasce. Un altro segno molto bello è vedere queste nonne cambiare nel rapporto con i loro nipoti: prima li guardavano come un peso e basta, bambini che si ritrovavano sulle spalle da mantenere, capitava anche che li trattassero male e questo era davvero molto doloroso. Riconoscendosi amate, invece, imparano di nuovo loro stesse ad amare. E poi ci sono le storie del tutto singolari, come quella di David: è un iraniano, figlio di un generale, ha anche combattuto in Libano. Ne ha passate di tutti i colori finché è arrivato qui in Thailandia e in questo suo percorso travagliatissimo ha incontrato Gesù: oggi lavora con me al servizio di queste persone e – dopo aver ricevuto il battesimo – studia teologia, per conoscere sempre più a fondo questo Dio che ci ama».
Durante il Giubileo la Chiesa indica il segno della Porta Santa da attraversare. Se pensi alla tua realtà di Pathumthani quale indicheresti?
«Penso alla porta della nostra chiesa a Pathumthani: la vorrei sempre più aperta per essere davvero santa. Ho dovuto battagliare non poco perché non costruissero intorno un’altra recinzione per proteggerci. C’è qualcuno che ogni tanto viene a prendere dal cortile un po’ di frutta, un po’ di verdura o qualche pesce dal laghetto. E alcuni nostri cattolici anche qui mi fanno la guerra perché non reagisco a dovere: “Tu non hai il senso dell’ordine…”. La porta santa è la porta di una casa aperta a tutti, persino ai ladri. Per una chiesa nella quale nessuno abbia reticenza a entrare e qui incontrare il Vangelo della misericordia».