La visita di papa Francesco al piccolo borgo di Barbiana, e l’apertura di una scuola media, qui in Cambogia, in un villaggio sperduto e irrilevante come quel piccolo borgo sul monte Giovi
Sono due le ragioni che mi hanno spinto a scrivere di don Lorenzo Milani: la visita di papa Francesco al piccolo borgo di Barbiana, e l’apertura di una scuola media, qui in Cambogia, in un villaggio sperduto e irrilevante come quel piccolo borgo sul monte Giovi.
Nemmeno per un istante la vita di don Lorenzo può essere separata dalla pochezza del luogo in cui ha vissuto, dal dicembre 1954 fino alla morte, il 26 giugno 1967, a 44 anni. Giovane rampollo di una famiglia borghese, ci si aspettava venisse promosso parroco di San Donato Calenzano dove fu inviato come cappellano nel luglio del 1947, e invece verrà nominato parroco a Barbiana. Forse castigato per la sua irriverenza, dirà in seguito che “non c’è motivo di considerarmi tarpato se sono quassù, la grandezza di una vita non si misura dalla grandezza del luogo in cui si è svolta, ma da tutt’altre cose”.
Lorenzo Milani nasce a Firenze il 27 maggio 1923, da Albano e Alice Weiss. Cresciuto in un ambiente agnostico, riceve il battesimo nel 1933 per volontà dei genitori che chiedono i sacramenti per proteggere i figli dalle incipienti leggi raziali naziste. Nel 1941 ottiene il diploma di maturità e si iscrive all’Accademia di Brera. Sarà l’artista tedesco Hans Joachin Staude ad introdurre Lorenzo alla ricerca dell’assoluto attraverso la pittura. “È tutta colpa tua – dirà più tardi a Staude che gli chiedeva il motivo della vocazione – perché tu mi hai parlato della necessità di cercare sempre l’essenziale, di eliminare i dettagli, di semplificare, di vedere le cose come un’unità dove ogni parte dipende dall’altra. A me non bastava fare tutto questo su un pezzo di carta. Non mi bastava cercare questi rapporti tra i colori. Ho voluto cercarli tra la mia vita e le persone del mondo. E ho preso un’altra strada”.
La conversione sembra sia avvenuta durante il restauro di un cappella sconsacrata. “Ho trovato un vecchio messale qui a Gigliola in una cappellina – racconta Lorenzo – (…) ho letto la messa, ma sai che è più interessante di ‘sei personaggi in cerca d’autore’”? Da subito capisce che la pittura non basta e che il suo bisogno di autenticità lo porta altrove. Il 12 giugno del 1943 riceve la Cresima e di lì a poco entra in seminario. “Quel ragazzo partì subito per l’assoluto” – racconta Mons. Raffaele Bensi, suo padre spirituale – “voleva salvarsi e salvare, era trasparente e duro come un diamante. La sua vita è stata quasi un’indigestione di Gesù Cristo”.
Durante gli anni di formazione, Lorenzo rivela la sua indole anticonformista. In una lettera alla mamma del novembre 1943 scrive: “Cara mamma, stamane sono finiti gli esercizi i quali consistono nello stare zitti per quattro giorni e sentire 16 prediche. Con tutto questo non sono ancora riusciti a levarmi l’allegria. Si ha sempre un po’ l’impressione di essere in un manicomio (…)”. Sovente ammirato per la sua libertà lo è molto meno per la sua fedeltà. Eppure – scrive il 10 ottobre 1958 – “non mi ribellerò mai alla Chiesa perché ho bisogno più volte alla settimana del perdono dei miei peccati, e non saprei da chi altri andare a cercarlo quando avessi lasciato la Chiesa”.
Ordinato sacerdote il 13 luglio 1947 viene inviato Montespertoli e subito dopo nominato coadiutore a San Donato di Calenzano. I suoi parrocchiani sono contadini, braccianti, pastori. Don Lorenzo vuole anzitutto occuparsi della loro povertà, del loro analfabetismo, del loro essere ultimi e sfruttati. “Da bestie si può diventare uomini e da uomini diventar santi, ma da bestie a santi d’un passo solo non si può diventare”, sosteneva. Fu allora che ebbe l’intuizione della scuola popolare, per insegnare ai poveri e parlare e a difendersi. “Vieni a scuola così ti difenderai dal padrone dal fattore e dal prete!”. “Ho assistito in questi giorni un moribondo – racconta don Lorenzo. A 84 anni dal suo battesimo non ha ancora acquistato quel minimo di linguaggio comune con il suo prete da intendere i sacramenti che riceve e le parole sull’aldilà. Forestiero alla nostra fede e al nostro linguaggio… A tratti passava dei momenti di delirio e allora credeva ancora di essere con le sue pecore, ussa su, ussa giù, porc… Ecco la sua lingua, il suo elemento, il soliloquio con le pecore, l’unico uso che ha fatto del dono della parola in 84 anni di vita. Ha imparato la loro lingua e non la mia, è più fratello loro che mio”. Don Lorenzo crede che la vera ricchezza viene dalla parola e che chi possiede la parola possiede tutto. “Ogni parola che non imparate ora – diceva – è una fregatura in più, un calcio in culo che prendete domani”. Quindi, ogni sera dalle 20,30 fino a notte, lezioni di Italiano, di lingue straniere, e di ogni genere di temi, la musica, il sindacato, la religione, la letteratura. Michele Ranchetti ha scritto che per don Milani “l’incarnazione del Verbo occupa tutta la parola e per questo la sua istruzione linguistica non distingue la lingua sacra e la lingua profana”. Per lui la lingua dell’uomo e la lingua di Dio sono un tutt’uno. Se cade l’una cade anche l’altra.
Alle elezioni del 1953, don Lorenzo consiglia alla sua gente di votare la DC, preferendo però al candidato dell’Azione Cattolica, alcuni candidati sindacalisti, più vicini ai problemi della gente. A San Donato la DC subirà un inaspettato calo di voti e, in seguito a questo, il cardinale di Firenze Dalla Costa ordinerà a don Milani il silenzio. La “promozione” a parroco di Barbiana è solo questione di mesi…
A Barbiana ricomincia dalla sua gente. “La mia è una parrocchia di montagna. Quando ci arrivai c’era solo una scuola elementare, 5 classi in un’aula sola. I ragazzi uscivano dalla quinta semianalfabeti e andavano a lavorare, timidi e disprezzati. Decisi allora che avrei speso la mia vita di parroco per la loro elevazione civile e non solo religiosa”. Per convincere i genitori a far studiare i propri figli, don Lorenzo non esita a sottoporsi allo sciopero della fame. “Come potevo spiegare che io i miei figlioli li amo, che ho perso la testa per loro, non vivo che per farli crescere, per farli sbocciare, per farli fruttare, come facevo a spiegare che amo i mie parrocchiani molto più che la Chiesa e il papa e se un rischio corro per l’anima mia non è certo quello di aver poco amato ma piuttosto di amare troppo”. Dodici ore di studio al giorno, 365 giorni all’anno, inglese, francese, arabo e persino viaggi all’estero. “Sono venuti anche uomini che non avevano mai visto la chiesa e che – racconta don Lorenzo –pensano di emigrare verso il piano, come tutti, ma proprio per questo vogliono istruirsi. Basta una trovata per sera e stanno lì occupati, appassionati fino alle 11 o mezzanotte. Una sera ho procurato i moduli di un conto corrente, un’altra i vaglia, un’altra i telegrammi, un’altra i moduli del comune”.
Eppure, per tutta la sua vita don Lorenzo rimane inquieto, refrattario all’obbedienza cieca. Se papa Francesco ha recentemente precisato che l’inquietudine di don Lorenzo “non era frutto di ribellione ma di amore e di tenerezza per i suoi ragazzi, (…) alimentata dall’amore per Cristo, per il Vangelo, per la Chiesa, per la società e per la scuola che sognava sempre più come “un ospedale da campo” per soccorrere i feriti, per recuperare gli emarginati e gli scartati”,1 allora, nel dicembre del 1958, l’Osservatore Romano stroncava le sue “Esperienze pastorali”. Don Lorenzo non perde in franchezza e sincerità. In occasione dell’ordinazione episcopale di Mons. Bartoletti, suo insegnate in seminario, gli invia un biglietto augurale e scrive: “il primo augurio è che lo Spirito Santo le dia un po’ di sfacciataggine e di maleducazione, le insegni insomma a dire la verità senza preoccupazioni (…). A me risulta che questo lei non l’ha mai fatto (…) Io osservo la fine che abbiamo fatto, lei la fanno vescovo in odore di santità, me mi fanno priore di Barbiana in odore di finocchio, di eretico e di demagogo”.
Accanto a “Lettera a una professoressa”, don Lorenzo è ricordato per un’altra opera, “L’obbedienza non è più una virtù”. Nel Febbraio 1965 un gruppo di cappellani militari criticano la renitenza alla leva, definendola un insulto alla patria e ai suoi caduti. Don Milani risponde che non si può e non si deve obbedire per andare in guerra e uccidere. Se è così, allora meglio disobbedire. “L’obbedienza non è più una virtù!” Viene citato in giudizio per incitamento alla diserzione, mentre il nuovo cardinale di Firenze Ermenegildo Florit minaccia di sospenderlo a divinis. Assolto prima, verrà condannato dopo la sua morte a cinque mesi e dieci giorni di reclusione, per quanto si affermi che “il reato è estinto per la morte del reo”. “Per un prete – scrive don Lorenzo – quale tragedia più grossa di questa potrà mai venire: essere liberi, avere in mano i sacramenti, camera, senato, stampa, radio, campanili, pulpiti, scuola e con tutta questa dovizia di mezzi divini ed umani, raccogliere il frutto di essere derisi dai poveri, odiati dai più deboli, amati dai più forti”.
Prossimo alla morte chiede che sia letta la passione di Cristo in presenza della mamma: “che anche la mamma mia veda come muore un prete cristiano”. Negli ultimi giorni vuole incontrare tutti i suoi ragazzi perché “vedano come ci si prepara alla vita eterna”. Ora anche noi, qui in Cambogia, vogliamo celebrarne la memoria. Il prossimo settembre, in un villaggio sperduto e irrilevante come Barbiana, apriremo una piccola scuola media. Con la stessa fede, la stessa cocciutaggine, la stessa passione.
1 Videomessaggio del santo padre Francesco ai partecipanti alla presentazione dell’opera omnia di don Milani alla fiera dell’editoria italiana (Milano, 19-23 aprile 2017).