Orgogliosi della propria cultura, aperti alle suggestioni dell’Occidente che sono pronti a fare proprie. Intervista ad Anna Vanzan, che racconta in un libro il nuovo volto della Repubblica Islamica e dei suoi abitanti
Ha iniziato bloccando i visti ai cittadini iraniani per gli Usa. Ora rimette in discussione gli accordi sul nucleare di Teheran. Il presidente americano Trump sembra intenzionato a riesumare l’immagine dell’Iran come grande nemico degli Stati Uniti. E lo fa in un momento in cui il regime degli ayatollah non sembra offrirgli alcun appiglio particolare. Al potere, dal maggio scorso, c’è con un secondo mandato Hassan Rohani, un politico moderato e riformista.
«C’è ancora chi è influenzato da questa propaganda, che cerca di fare il lavaggio del cervello dipingendo l’Iran come un Paese canaglia, pieno di donne cattive con il chador, uomini barbuti perennemente arrabbiati con il mondo e ayatollah che invocano morte e sangue», commenta Anna Vanzan, docente di Cultura araba all’università di Milano. «Negli ultimi due anni, il turismo italiano in Iran ha vissuto un boom. Chi visita il Paese rimane invece piacevolmente stupito dalla cordialità della gente e dai cambiamenti in corso».
Anna Vanzan parla con cognizione di causa. L’Iran lo conosce da prima della Rivoluzione Islamica del 1979, e lo frequenta regolarmente, soggiornandovi almeno una volta all’anno. Parlando fluentemente la lingua farsi – il persiano – e avendo tante conoscenze sul posto, non ha la visione limitata del turista, o anche del giornalista che vi rimane per pochi giorni, riuscendo a comunicare solo con chi parla un po’ di inglese. La sua passione per la cultura, l’arte e la storia di questo grande Paese è dichiarata nel suo recente libro Diario Persiano – Viaggio sentimentale in Iran (pubblicato da Il Mulino), che è un itinerario molto personale che parte dalla capitale Teheran per toccare i luoghi più affascinanti: Esfahan con i suoi palazzi e i suoi ponti; Shiraz con la vicina Persepoli, cuore dell’antica Persia; Yazd che è l’ultimo baluardo della religione zoroastriana; infine il sud, dove uno stretto braccio di mare separa il Paese degli ayatollah dagli Emirati Arabi Uniti. L’autrice non si limita a raccontare i luoghi, ma ci accompagna a conoscere la gente, a scoprire le consuetudini e i mutamenti sociali in atto. Dopo aver finito di leggere questo libro, avrete un’immagine diversa dell’Iran e dei suoi abitanti, un Paese che l’autrice, di origine veneziana, dice di amare come se fosse il suo.
Professoressa Vanzan, come è nato il suo interesse per l’Iran?
«Dalla letteratura. All’università avevo scelto di studiare hindi e dovevo affiancare una seconda lingua orientale. Il mio professore mi consigliò il persiano, per i forti legami culturali che c’erano fra India e Persia. Ho seguito il suo consiglio, ma in breve l’Iran e la sua cultura mi hanno conquistata a tal punto da spingermi a mettere in secondo piano l’hindi. È da quando ero studentessa che mi reco in questo straordinario Paese. Solo la guerra con l’Iraq mi ha impedito di andarci, ma appena la situazione si è calmata ho ripreso ad andarci regolarmente».
Teheran, a detta di molti, è una città caotica, inquinata, brutta. Eppure i suoi abitanti hanno voglia di uscire, di frequentare ristoranti, caffè, parchi. È un fenomeno generalizzato?
«La capitale ha anche zone residenziali molto belle, in particolare i quartieri dei ricchi. Ma anche nella parte a sud è possibile trovare angoli piacevoli: vecchi cortili con piante, fontanelle. Al di là dell’aspetto della città, c’è una voglia di convivialità da parte della gente che è trasversale a tutte le classi sociali. Negli ultimi anni, i caffè sono nati anche in abbinamento a librerie e a gallerie d’arte. L’aspetto è moderno, tant’è che potrebbero essere a Parigi o in qualsiasi metropoli occidentale. Ci si accorge di essere a Teheran solo per i codici di comportamento, soprattutto nel vestiario. Mi è capitato di assistere in uno di questi posti a uno shooting fotografico, con una modella, truccatissima e con il foulard, che sfilava. La gente guardava con indifferenza: è uno spettacolo usuale. Eppure, la modella, la pubblicità, il consumismo erano quanto la Rivoluzione Islamica voleva combattere. Questo è un tratto tipico degli iraniani: sanno adattarsi, rielaborare e fare proprio qualcosa ciò che viene da fuori secondo i propri canoni. A proposito, in quel caffè ho bevuto un mojito. Naturalmente reinventato dagli iraniani senza alcol!».
Teheran aveva 4 milioni di abitanti prima del 1979, oggi ne conta 15 milioni includendo l’hinterland. Come mai questa esplosione demografica?
«È l’effetto della guerra. Molte persone che abitavano nella parte sud occidentale dell’Iran, al confine con l’Iraq, sono fuggite. Ma è anche la conseguenza di politiche agricole fallimentari, già avviate ai tempi dello Shah, che hanno spinto i contadini a lasciare le campagne. Tutte le città, e non solo la capitale, sono cresciute a dismisura».
Nel suo libro, lei racconta che gli iraniani sono simili agli italiani: cinici e sempre pronti all’autocritica, ma guai se a farlo è uno straniero. Generalizzare è sempre difficile, ma chi è l’iraniano medio di oggi?
«Sono persone molto affabili e desiderose di contatto. Ti invitano facilmente a casa. E a farlo non sono solo i più occidentalizzati o i più critici verso il governo. Tutti, uomini e donne, hanno voglia di comunicare, di attaccare bottone con lo straniero. I giovani vogliono liberarsi dell’immagine negativa che affligge il loro Paese. Mi è capitato, per esempio, di voler acquistare un orologio da due ragazze al mercato. Ero con amiche iraniane, che mi hanno invitato a lasciar fare a loro, per contrattare il miglior prezzo. Me ne sono stata zitta. Le ragazze ci hanno accordato uno sconto a patto che poi raccontassi che “l’Iran è un Paese bello e buono”. Sono anche molto nazionalisti. Chi non è orgoglioso della Rivoluzione, lo è comunque della storia persiana e delle proprie radici culturali».
Molti dei giovani iraniani di oggi sono nati dopo la Rivoluzione Islamica e la guerra con Saddam. Qual è il loro atteggiamento nei confronti della mitologia del martirio, così importante per il regime?
«Molti di loro mostrano indifferenza. Non sono interessati alla retorica, né ai sacrifici. Ma tutti ne hanno sentito parlare dai genitori, e tanti hanno avuto parenti morti in famiglia, per cui c’è anche fra i giovani chi ha il mito della Rivoluzione Islamica. In generale, c’è un po’ di attrito nella società. Alcuni si sono arricchiti, altri rimpiangono di aver sacrificato tanto e di ritrovarsi in ristrettezze economiche. Le autorità sono state attente ad assistere, attraverso fondazioni, le vedove di guerra e le famiglie dei martiri, con agevolazioni, per esempio, negli affitti delle case».
Ogni città araba e iraniana ha un bazar, che è il suo cuore pulsante. Cosa rappresenta nell’Iran attuale?
«A Teheran, per esempio, il bazar è una città nella città, un labirinto che raccoglie traffici di ogni genere, ma anche un elemento importante a livello politico. La classe mercantile, per tradizione conservatrice, è alleata dei religiosi. Per gli strati popolari è ancora il luogo più conveniente per fare affari. I giovani prediligono invece i centri commerciali, sia come luogo d’incontro, sia per lo shopping. Lì trovano le grandi marche internazionali, alcune d’imitazione, costose ma accessibili alle nuove classi sociali più abbienti».
Come vive in Iran chi non è musulmano?
«I cristiani, che sono soprattutto armeni, vivono in modo tranquillo. La loro religione è riconosciuta dalla Costituzione, godono di autonomia e autoregolamentazione. Mi è capitato di passare a Teheran dalla più grande chiesa armena, all’uscita dalla Messa. Le donne erano vestite in tailleur, solo con un foulard in testa. Nessun passante osservava con curiosità: gli armeni sono perfettamente integrati, fanno parte da millenni della collettività. Come gli ebrei locali, anche loro si sentono iraniani. E nei momenti di tensione internazionale, si schierano con il loro Paese».