Fratel Charles, dall’Algeria a Roma per il Santo di tutti

C’è anche un piccolo gruppo di cristiani venuti dall’Algeria in piazza San Pietro per la celebrazione in cui Charles de Foucauld viene proclamato santo insieme ad altri nove. Un piccolo ma significativo segno di una Chiesa che continua a testimoniare il “vivere-con” accanto ai fratelli musulmani
Nell’immensità del territorio algerino come nella folla che invade piazza San Pietro questa mattina, i cristiani d’Algeria sembrano scomparire. Eppure ci sono, piccolo gregge in un mondo eminentemente musulmano nel loro Paese; piccola presenza che anche a Roma è qui per fare segno, non per fare numero, come amano spesso ripetere. Segno dell’amore universale di Dio per tutti gli uomini. In altre parole di quella fratellanza di cui oggi Papa Francesco riconosce uno dei suoi più alti testimoni, Charles de Foucauld, il “fratello universale” proclamato santo. Sono una trentina in tutto i cristiani arrivati dall’Algeria, per celebrare con l’essenzialità che li contraddistingue, questo evento del tutto eccezionale, mantenendo quello stile di discrezione, quasi di nascondimento, proprio sulla scia di fratel Charles che nel Grande Sud dell’Algeria si era spogliato di tutto «per farsi il più vicino all’altro, per farsi l’altro». Lo sottolinea l’arcivescovo di Algeri, Jean-Paul Vesco, che, insieme al suo predecessore, Paul Desfarges, e al vescovo di Lagouat-Ghardaia, John McWilliam, il vescovo del Sahara, accompagna il piccolo gruppo di pellegrini della Chiesa d’Algeria, di cui fanno parte anche alcuni cristiani locali, che ancora oggi sono spesso costretti – non per scelta ma per necessità – a vivere nel nascondimento. C’è anche un tuareg con loro, a testimoniare il legame speciale che fratel Charles ha avuto con quel popolo, negli anni in cui visse a Tamanrasset e all’Assekrem: i nomadi del deserto, a cui aveva dedicato un indefesso lavoro di studio della lingua e di compilazione di un poderoso dizionario oltre che di trascrizioni di poesie e proverbi, lo consideravano come un “marabutto”, riconoscendogli – loro, musulmani – una profonda esperienza di Dio. «Quel mondo musulmano in cui si era calato – fa notare monsignor Vesco – lo aveva molto colpito e spinto ad approfondire la sua fede, specialmente attraverso la preghiera, a cui dedicava molte ore al giorno». Soprattutto, però, ci dice il vescovo, «era assetato di fraternità. Ed è questo, insieme alla sua passione ardente per il Vangelo e al suo desiderio di avvicinarsi all’altro, che lo rendono un esempio per tutti e anche per il presente. Charles de Foucauld resta un modello forte, anche se – o proprio perché – non può essere richiuso in un modello». E, in effetti, è piuttosto stupefacente vedere come ancora oggi moltissime persone, oltre che numerose famiglie religiose, continuino a ispirarsi a una figura oggettivamente complessa – e per alcuni anche controversa -, un santo fuori dagli schemi, «che aveva voluto veramente raggiungere la fine del mondo» – dice il vescovo – e che ha vissuto molte vite, facendo sempre scelte radicali. «Paradossalmente è quello che non ha vissuto nella sua vita, quello che non è stato, che lo fa santo. Il suo spogliarsi di tutto è qualcosa che sfida anche il mondo contemporaneo; il suo disarmarsi è messaggio forte anche per il presente». Padre Andrea Mandonico, missionario della Società per le missioni africane (Sma) e vice-postulatore della causa di canonizzazione, sottolinea come «fratel Charles è stato colui che ha riportato al nucleo della fede, al Vangelo e all’Eucaristia. Imitazione di Gesù e dono di se stesso sono stati la sua scelta radicale. Che poi sono il cuore della vita cristiana. Quando si vuole rinnovare la Chiesa occorre sempre ritornare alle radici, a ciò che purifica e che dà nuovo sviluppo. È quello che ci indica fratel Charles, oltre all’urgenza della fratellanza, un tema di grande attualità anche oggi. La fraternità va oltre la religione, è la base stessa dell’umanità che deve e può interessare tutti gli uomini. Nel contesto in cui ha vissuto era l’unico modo di donarsi, prima ancora di predicare e testimoniare: era curare l’umanità dell’altro».
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