Tra i temi della relazione finale del Sinodo sulla famiglia anche un paragrafo specifico sulle «famiglie composte da unioni coniugali con disparità di culto». Fenomeno che cresce anche nei Paesi di lunga tradizione cristiana. E chiede una presenza pastorale ad hoc
Nella lettura della Relazione finale del Sinodo per la famiglia – approvata paragrafo per paragrafo dai Padri sinodali e consegnata al Papa – in queste ore i riflettori si sono accesi in particolare sul capitolo III, quello dedicato al tema Famiglia e accompagnamento pastorale. È in questa parte che si trovano i paragrafi 84, 85 e 86, quelli sul tema tanto discusso dei divorziati risposati.
In quello stesso capitolo – però – ai numeri 72, 73 e 74, il Sinodo affronta anche il tema dei matrimoni misti, sia nell’accezione dell’unione tra coniugi di confessioni cristiane diverse, sia per il caso in cui la famiglia nasca dall’incontro tra sposi di religioni diverse. Non si tratta di una novità: già la Familiaris consortio, l’esortazione post sinodale sulla famiglia scritta da Giovanni Paolo II, affrontava questo tema al numero 78. Se si mettono a confronto i due testi, però, balza all’occhio come questa volta – pur senza sottovalutare le difficoltà – il Sinodo si sbilanci parecchio nel definire questi matrimoni «un segno di speranza».
«I matrimoni con disparità di culto – si legge al numero 73 – rappresentano un luogo privilegiato di dialogo interreligioso nella vita quotidiana, e possono essere un segno di speranza per le comunità religiose, specialmente dove esistono situazioni di tensione». Nell’affermare poi che i «membri della coppia condividono le rispettive esperienze spirituali», aggiunge che anche laddove uno dei due coniugi non sia credente ci può essere comunque una pienezza di fede (il testo indica come brano di riferimento le parole di 1 Corinzi 7,14: «il marito non credente è santificato nella moglie, e la moglie non credente è santificata nel marito credente; altrimenti i vostri figli sarebbero impuri, mentre ora sono santi»).
Certamente non manca il realismo sulle difficoltà, specie riguardo al tema dell’educazione dei figli. Ma il Sinodo indica la strada per affrontarle: «Gli sposi sono chiamati a trasformare sempre più il sentimento iniziale di attrazione nel desiderio sincero del bene dell’altro. Questa apertura trasforma anche la diversa appartenenza religiosa in una opportunità di arricchimento della qualità spirituale del rapporto». Apertura che ha come premessa il riconoscimento della libertà religiosa, purtroppo negata in troppi contesti: «In alcuni Paesi, dove la libertà di religione non esiste – ricordano i Padri sinodali -, il coniuge cristiano è obbligato a passare ad un’altra religione per potersi sposare, e non può celebrare il matrimonio canonico in disparità di culto né battezzare i figli. Dobbiamo ribadire pertanto la necessità che la libertà religiosa sia rispettata nei confronti di tutti».
In definitiva – dunque – il Sinodo guarda al numero crescente di matrimoni interreligiosi come a un segno dei tempi. Un fenomeno da non guardare con sospetto, ma da accompagnare con un’adeguata attenzione pastorale, che non può limitarsi «al solo periodo precedente alle nozze» (di un’esperienza importante in questo senso – sul fronte delle coppie miste islamo-cristiane a Milano – parlavamo già qualche anno fa su Mondo e Missione in questo articolo). Un dono comunque prezioso in un tempo in cui – nei rapporti tra gli uomini delle diverse religioni – sembrano prevalere invece la diffidenza e il sospetto. Il dialogo interreligioso comincia oggi in tante case, prima ancora che nelle chiese, nelle moschee, nelle sinagoghe, nei templi indù. Sostenerlo nelle fatiche quotidiane della vita insieme può diventare un servizio prezioso; non solo a tante singole famiglie, ma anche al mondo intero.