Da qualche settimana ho cominciato ad insegnare Teologia dell’inculturazione presso il Seminario maggiore di Phnom Penh. Quest’esperienza mi offre l’occasione per riflettere su come il Vangelo di Gesù possa entrare nelle culture dei popoli e trasformarle dall’interno
«Cercate di capire l’ultima parola
di quel che dicono nei loro capolavori i grandi artisti
là dentro sarà Dio» (1)
Da qualche settimana ho cominciato ad insegnare Teologia dell’Inculturazione presso il Seminario maggiore di Phnom Penh. Il numero degli alunni, cinque, se da una parte spegne qualsiasi ambizione accademica, dall’altra mi offre l’occasione per riflettere su come il Vangelo di Gesù possa entrare nelle culture dei popoli e trasformarle dall’interno, proprio assumendone i tratti.
La Chiesa ha sempre fatto di tutto per rendere comprensibile il Vangelo. Ha spesso commesso errori e ricevuto accuse. In ogni caso l’ingresso della Parola di Gesù nella vita di un popolo non è un processo naturale. Rappresenta piuttosto un’irruzione dall’alto simile al mistero stesso dell’incarnazione che ancora accade in deroga alle normali regole della vita biologica, pur assumendole fino in fondo.
Per i cambogiani, come per chiunque, abbracciare il Cristianesimo significa intraprendere un itinerario ben oltre la propria natura e cultura. Qualcosa di simile a quanto è accaduto ad Abramo quando Dio gli ha intimato di partire: «Vàttene dal tuo Paese, dalla tua patria, e dalla casa di tuo padre…» (Gn 12,1). Da allora non solo ha dovuto lasciare gli orizzonti abituali nei quali si era mosso per 75 anni, ma ha anche dovuto accettare che la sua biografia venisse trasformata in una teologia. Con essa Dio si sarebbe rivelato.
L’in-culturazione è dunque un processo faticoso. Non sopporta di essere addolcito dall’esterno, magari con l’uso del denaro e non tollera di essere annacquato, pur di acciuffare adepti e fare numero. L’apostolo Paolo ci è maestro in questo quando dice di non essersi presentato ai Corinti «con sublimità di parola o di sapienza», ma ritenendo piuttosto «di non sapere altro (…) se non Gesù Cristo, e questi crocifisso».
Nelle prime lezioni infatti ho preferito raccomandare ai ragazzi un confronto con il Vangelo così com’è, sine glossa, senza se e senza ma. Prima di farne un’arma contundente o un tranquillante a buon mercato, andrebbe accostato in tutta la sua pregnanza di vita e di senso. Mi ha aiutato, almeno interiormente, un’opera di Vincent Van Gogh, la Pietà. Michelangelo ha reso questo soggetto famoso. Gesù morto, appena deposto dalla croce, giace tra le braccia di Maria, quasi fosse tornato ad abitarne il grembo, questa volta gravido di Resurrezione.
Ebbene, in quest’opera, Van Gogh impiega la sua biografia per farne una teologia. La tela è del settembre 1889 e riproduce una litografia di Eugène Delacroix che Vincent aveva in camera, nella casa di cura per malati mentali dove si era fatto ricoverare. Depressione e melanconia sono gli stati d’animo prevalenti in quel periodo della sua vita e nondimeno nella sua Pietà sostituisce lo sfondo scuro presente nella litografia di Delacroix, con i colori intensi di un cielo infuocato dal sole al tramonto. Non solo, il Cristo deposto tra le braccia della madre, appare con il volto del pittore stesso, con guance scavate, capelli corti, barba rossiccia, come fosse lui il Figlio di Dio morto, deposto dalla croce. «Il cuore del suo Cristianesimo – scrive M. Recalcati – è probabilmente tutto in questa identificazione fondamentale al Cristo (figlio) crocifisso» (2).
Qui in-culturazione è anzitutto un’identificazione reciproca tra la biografia del pittore e la storia di Gesù. Grazie alla tela, anzi, dentro la tela, i loro profili si intrecciano, si com-prendono a vicenda e diventano un’unica storia di salvezza. «Colui che vuole onorare veramente la passione del Signore – scrive san Leone Magno – deve guardare con gli occhi del cuore Gesù Crocifisso, in modo da riconoscere nella sua carne la propria carne» (3). Per Van Gogh «non c’è frattura alcuna tra l’essere cristiano e l’essere pittore». E nondimeno, questo non ha significato per lui la pace, ma la lotta, quella continua ricerca dell’«alta nota gialla» che avrebbe dovuto consentirgli di dipingere «un’altra luce», un «sole più forte» (4).
La solitudine del pittore, la sua melanconia, quel «qualcosa di rotto nel mio cervello» (5) – dice di sé – trovano un luogo, un destino divino, nel Cristo crocifisso e abbandonato. Questo mistero gli parla, e avviene quel riconoscimento reciproco che è al cuore di ogni autentica inculturazione. Van Gogh non perde il suo volto, la sua storia, ma capisce che gli è data per essere con e come Cristo, entrambi reitetti, entrambi figli. La sua biografia trova spazio e senso solo in quella teologia che è la storia di Gesù-Dio con noi. Eppure, nemmeno una simile comunione riuscirà a salvare il pittore dal gesto estremo che lo porterà alla morte.
Che strano, una tale vicinanza lo lascia ancora solo. Devono saperlo i miei studenti. Che c’è sempre uno scarto. Che in ogni tentativo di inculturazione i conti non tornano. E «che paghiamo cara, molto cara, la dignità sovrumana della nostra vocazione» (6).
1. V. Van Gogh, Lettere a Theo, Parma 1984, 287-288.
2. M. Recalcati, Melanconia e creazione in Vincent Van Gogh, Torino 2009, 48.
3. Dai «Discorsi» di san Leone Magno, Disc. 15 sulla passione del Signore, 3-4; PL 54, 366-367.
4. V. Van Gogh, Lettere a Theo, 341.
5. V. Van Gogh, in K. Jaspers, Genio e follia. Strindberg e Van Gogh, Milano 2001, 159.
6. G. Bernanos, Diario di un curato di campagna, Milano 1998, 65.