La vocazione missionaria ha tanta forza da rivoluzionare programmi e aspettative: lo dimostrano le storie dei cinque nuovi sacerdoti del Pime
Non ci sono molti posti in cui trovare, riunite nello stesso luogo per un unico motivo, persone provenienti dagli angoli più nascosti del pianeta. Ma andando al seminario del Pime di Monza e ascoltando le storie dei giovani che durante questa estate saranno ordinati sacerdoti, i collegamenti tra terre lontane e tempi diversi si fanno evidenti.
Dalle parole dei diaconi non emerge il minimo dubbio che a portarli dove sono ora sia stata un’ininterrotta catena di eventi, passata attraverso la testimonianza dei missionari nei propri Paesi d’origine.
Vikram Thumma e Rajeswar Nayak dall’India, Arsène Toussum dal Camerun, Alan Duarte Dos Santos e Benedito Lima De Medeiros dal Brasile, i cinque trentenni che presto diventeranno sacerdoti del Pime, vengono tutti da famiglie cattoliche e tutti hanno vissuto una “correzione di rotta” radicale dall’incontro, più o meno diretto, con l’Istituto. Chi, come Rajeswar, ne ha sentito parlare quando era già in seminario e si è lasciato conquistare dalla dedizione di questi uomini che lasciavano tutto per annunciare Gesù; e chi, come Arsène (che non pensava a diventare sacerdote) leggendo un libro sui martiri del Pime non ha potuto evitare di interrogarsi sul senso da dare alla propria vita.
Vikram, originario dello Stato indiano del Telangana, e Rajeswar, che sarà il primo sacerdote del Pime proveniente da quello dell’Orissa, hanno due storie simili. Entrambi desideravano entrare in seminario sin da giovani, senza essere a conoscenza di differenze particolari tra gli Istituti. Vikram aveva ricevuto inviti sia dai francescani che dai camilliani, ma qualcosa lo ha indirizzato da un’altra parte: il semplice modo di lavorare di padre Colombo, missionario del Pime che spesso visitava il suo villaggio. Un esempio che rimarrà indelebile e che lo porterà a scegliere la sua stessa strada per poter attrarre, come quel parroco, chi non conosce Gesù con l’esempio.
Rajeswar, invece, era già in seminario quando gli hanno parlato del Pime. L’incontro con il carisma missionario ha cambiato il suo modo, già intenso, di vivere la fede. Figlio di un catechista, studente in un ostello cattolico, un fratello seminarista e un altro catechista anch’esso (con una figlia suora), alla famiglia di Rajeswar non mancava di certo la spiritualità. Ma le storie dei missionari, che lasciavano la patria per vivere la fede e l’annuncio inculturandosi in popoli così diversi, hanno aperto il suo orizzonte e lo hanno spinto verso il Pime.
Un’esperienza simile a quella di Arsène, cresciuto a Yaoundé, in Camerun, e abituato alla vita in parrocchia, dove trovava tutto quello che lo appassionava e di cui aveva bisogno. Almeno così pensava. Ma la lettura di quel libro sui martiri del Pime ha segnato una svolta nella sua vita e ha richiesto un approfondimento sia personale sia sul campo. Inviato a fare un’esperienza nel Nord del Camerun, in un contesto radicalmente diverso rispetto a quello che conosceva, a maggioranza musulmana, anche Arsène ha aperto il suo orizzonte di fede. Con padre Giuseppe Pareti percorrevano chilometri e chilometri per visitare comunità con uno o due battezzati soltanto; e alla domanda «perché tanta fatica per così pochi?», la risposta che non verrà più dimenticata: «Non conta il loro numero, ma il vedere la fede delle persone».
Non così lineare il cammino per i due brasiliani. Alan era entrato giovanissimo nella congregazione dei Frati servitori, ma ne era uscito dopo alcuni anni in preda ai dubbi sulla sua vocazione. Dopo aver studiato arte, musica e psicologia, però, i dubbi rimanevano. A riaccendere la miccia è stata la Giornata mondiale della gioventù di Rio, nel 2013. «Il Papa disse “andate senza paura per servire” e fu come se quella frase fosse stata pronunciata per me», racconta Alan. «Mi sentivo chiamato ad andare al di là, senza sapere dove o quando». Tornato a casa, ha cercato il Pime, conosciuto durante gli anni in seminario, e ha iniziato il percorso per diventare missionario.
Benedito, invece, non è potuto entrare in seminario quando avrebbe voluto farlo, da giovanissimo. Perciò ha vissuto la sua vita come tutti i suoi coetanei dello Stato amazzonico del Pará. Dopo la maturità ha superato il difficile esame per diventare infermiere. «Sono entrato in crisi», racconta Benedito. «Alla luce di questo successo, ho pensato che quella fosse la strada che il Signore aveva scelto per me, non quella del sacerdote». Verso la conclusione degli studi gli viene offerto un posto da professore, che gli avrebbe garantito una vita comoda e tranquilla. Ma qualcosa lo blocca: sono le sensazioni che prova durante la sua attività di volontariato, le visite mediche che fa nei villaggi dell’Amazzonia insieme a padre Brusadelli. «Ho capito che basta l’amore per dare senso alla vita, e che io volevo questo, avevo sete di servizio e di incontro». Giusto il tempo di finire il master e Benedito entra in seminario. Ora, come i suoi quattro compagni, è pronto per diventare missionario.