A dieci anni dalla morte di uno dei grandi maestri di spiritualità del nostro tempo, vogliamo ricordare la sua attenzione costante per la missione attraverso due contributi: il video di un suo dialogo con i missionari del Pime nel febbraio 1986 e un articolo che scrisse per “Mondo e Missione” nell’ottobre 2002, tracciando un bilancio dei suoi viaggi missionari. Il 7 ottobre al Centro Pime di Milano una serata per ricordare questo aspetto della sua eredità
Ricorrono oggi i 10 anni dalla morte del cardinale Carlo Maria Martini, per 22 anni arcivescovo di Milano e grande maestro del nostro tempo. Del suo vastissimo magistero vogliamo ricordare un aspetto che ci sta particolarmente a cuore: l’attenzione costante all’annuncio di quella Parola di Dio che è stata il grande filo rosso di tutta la sua vita. E lo facciamo attraverso due documenti tratti dal nostro archivio.
Il primo è il video di un incontro che il 3 febbraio 1986 il cardinale ebbe con i missionari del Pime nella loro casa di Milano. Come si può vedere si tratta di un dialogo “in famiglia” nel quale Martini raccontava come stesse ancora cercando il significato più profondo della parola missione e di come i viaggi che aveva iniziato a compiere per le visite ai missionari (in Brasile, in Africa e presto sarebbe andato anche in Asia) lo stavano aiutando in questo.
Il secondo contributo – che proponiamo più sotto – è invece un articolo che il cardinale Martini scrisse personalmente per Mondo e Missione nel 2002, alla fine del suo ministero. Un testo in cui lui stesso tracciava un bilancio dei suoi incontri con i missionari. Raccontava di «»aver capito meglio grazie a loro la cattolicità della Chiesa», definiva le missioni in Africa e in Perù un grande dono per la diocesi di Milano, parlava del dialogo con le grandi religioni orientali come della «sfida per il futuro». E diceva già allora che la globalizzazione è un «fenomeno che va molto modificato».
All’eredità missionaria del cardinale Carlo Maria Martini il Centro Pime di Milano dedicherà una serata speciale che si terrà nella sua sede (ingresso via Mosé Bianchi 94) venerdì 7 ottobre alle 21. Interverranno il teologo don Armando Matteo, segretario del dicastero per la Dottrina della fede e autore del libro «La Chiesa che verrà» (Edizioni San Paolo) e il superiore generale del Pime padre Ferruccio Brambillasca. Scopri qui tutti i dettagli della serata.
San Paolo scrivendo ai Corinti parla di un “assillo quotidiano” che lo ha accompagnato lungo il suo ministero: “la preoccupazione per tutte le Chiese” (2Cor 11,28). La sollicitudo omnium ecclesiarum è una caratteristica dell’apostolo alla quale ciascun vescovo si sente chiamato, così da condividere con il Papa l’ansia dell’evangelizzazione e da saper ascoltare la voce dello Spirito che in ogni Chiesa suscita vocazioni e carismi per la missione e in particolare per la missione ad gentes.
Già l’appartenenza alla Compagnia di Gesù mi aveva fatto incontrare l’orizzonte missionario e molti miei compagni di studi furono inviati in regioni lontane; i racconti dei missionari gesuiti hanno nutrito gli anni della mia formazione e i primi tempi della mia appartenenza alla Congregazione; come ogni gesuita io stesso mi ero reso disponibile all’invio missionario se i Superiori me lo avessero richiesto (si trattava allora in particolare del Giappone).
Anche negli anni dell’insegnamento accademico al Pontifico Istituto Biblico avevo sperimentato che la Chiesa è “universale”: ho incontrato studenti di tutte le nazionalità e ho visto molti di loro nominati Vescovi nelle diocesi di origine; altri li ho ritrovati anni dopo impegnati nelle strutture formative delle giovani Chiese (Seminari, Centri pastorali, Facoltà teologiche, ecc.); altri ancora hanno portato il frutto della loro preparazione nel cuore di sfide durissime in situazioni di particolare violenza o povertà, come per esempio i gesuiti uccisi nel 1989 nell’Università dell’America Latina a San Salvador.
Durante il ministero episcopale a Milano ho avuto ancora più di prima la grazia di incontrare l’infinita ricchezza dei doni dello Spirito nell’ambito specifico della missio ad gentes. Le missionarie e i missionari nativi – preti, religiose e religiosi, laici – sono più di duemila (un numero pari a quelli dei preti diocesani), presenti in tutti i paesi del mondo. La maggior parte di essi vive con piena dedizione il servizio alle giovani Chiese, non raramente in situazioni estreme di povertà, di violenza, di guerra; alcuni invece sono costretti a riposo dall’avanzare dell’età o dalle malattie; altri infine svolgono temporaneamente una preziosa opera di animazione missionaria qui in Italia e vivono, con la soddisfazione per la crescente sensibilità verso i temi dell’evangelizzazione, anche la preoccupazione per il calo delle vocazioni, che colpisce pure gli istituti missionari e religiosi.
Con molti missionari e missionarie, anche non milanesi, ho potuto sviluppare un rapporto diretto grazie alla fittissima corrispondenza che ci siamo sempre scambiati. Talvolta si sono presentati con richieste di aiuto; ma nella maggior parte dei casi ciascuno mi proponeva, spesso a partire dalla lettura di qualche mio libro, una testimonianza personale circa la propria vocazione, il desiderio di fedeltà evangelica, il drammatico confronto con le miserie di tanti popoli, l’entusiasmo di stampo giovanile nel perseverare anche dopo anni di lavoro apostolico. Per la ricchezza della fede, per la passione evangelizzatrice e per la carità testimoniata in ogni angolo della terra, ho con tutti loro un debito di gratitudine e riconoscenza, che ogni anno ho cercato di esprimere nell’incontro con i missionari rientrati per le vacanze.
Ho colto in molte esperienze come la missione della Chiesa non possa nascere se non da una preghiera profonda e fiduciosa e da un costante contatto con la Parola di Dio, riletta anche a partire dalle situazioni locali e dalla sensibilità per culture ed esperienze nuove. Grazie ai missionari ho potuto comprendere meglio la “cattolicità” della Chiesa, che non è solo estensione geografica, dialogo culturale, apertura all’altro, ma riconoscimento dell’opera di Dio in ogni cuore umano e desiderio di risvegliare in esso l’ascolto del Maestro interiore.
Ho potuto sperimentare universalità e cattolicità della Chiesa anche rispondendo alle proposte che mi venivano fatte anno dopo anno per visitare le giovani Chiese. In tali visite ho cercato di privilegiare sempre un approccio particolare: più che gli aspetti pubblici della vita della Chiesa locale, mi interessava viverla dall’interno; ho perciò scelto di recarmi là dove la predicazione degli esercizi spirituali mi consentiva un approccio più profondo a diverse categorie di persone e alle comunità locali. L’ascolto della Parola di Dio e la preghiera comune sono così diventate le basi di una serie di incontri personali che per me erano vera rivelazione delle opere di Dio in quei luoghi: ho potuto gioire di questa singolare comunicazione nella fede. Accadeva pure che accanto all’esperienza di predicazione, gli organizzatori dovessero spesso considerare ulteriori possibilità di incontri con comunità parrocchiali, istituti religiosi, gruppi e situazioni particolarmente espressive di presenza cristiana o di impegno evangelico; in qualche caso non è mancato il dialogo con le autorità politiche o con i rappresentanti di altre confessioni cristiane o di altre religioni. Tutto ciò ha costituito occasione per un incontro diretto con tante realtà che, dapprima narrate dagli stessi protagonisti, diventavano poi concrete davanti ai miei occhi.
Una parte significativa delle visite all’estero le ho riservate alle cosiddette “missioni diocesane”. Già i miei predecessori, i cardinali Montini e Colombo, avevano inviato, sull’onda dell’enciclica di Pio XII Fidei Donum, alcuni preti nella regione allora denominata Rhodesia; dopo le travagliate vicende politiche e militari degli anni ’70, la presenza milanese si è attestata nell’odierna Zambia, nelle diocesi di Lusaka e Monze. Nel decennio successivo, grazie soprattutto all’amicizia con il card. Christian Tumi, mio compagno di ordinazione episcopale, arcivescovo allora di Garoua, sono stati inviati altri preti fidei donum in Camerun. E negli anni ‘90 si è aperta la collaborazione con la diocesi di Huacho in Perù. Nello stesso periodo altri preti fidei donum sono stati inviati in una dozzina di paesi del mondo. Da qualche tempo infine si sono affiancati ai preti fidei donum alcuni laici inviati dalla diocesi come operatori pastorali su specifici progetti presentati dalle comunità locali.
Ho avuto dunque più volte occasione di osservare da vicino l’opera dei missionari diocesani, di condividere le loro giornate e di valutarne l’esperienza. Ritengo che l’impegno diretto della diocesi nella collaborazione con alcune Chiese sorelle, senza mortificare il ruolo tipico degli istituti religiosi e missionari, abbia consentito anche alla nostra Chiesa locale di misurarsi concretamente con i temi tradizionali dell’evangelizzazione, dal primo annuncio alla plantatio Ecclesiae, ma soprattutto sia diventato occasione per arricchire la tradizione ambrosiana a partire dall’esperienza missionaria. Alcuni fidei donum e laici rientrati in diocesi hanno dato vita a esperienze nuove, anche se solo iniziali, di unità pastorali o di più stretta corresponsabilità dei laici nella vita delle parrocchie. Il numero di queste sperimentazioni è ancora ridotto, ma il tempo suggerirà come approfondire questi cammini.
Mi ha sempre molto colpito che alcune parrocchie affidate ai preti fidei donum ambrosiani – cito quelle di Djamboutou in Camerun, di Chirundu in Zambia o di Cajatambo sulle Ande peruviane – siano più estese della stessa diocesi di Milano, pur contando sul loro territorio poche decine di migliaia di abitanti e ovviamente ancor meno cattolici. La diocesi di Milano, definita “la più grande” del mondo per il numero di parrocchie – oltre mille – e la concentrazione di attività e iniziative ecclesiali, ha un suo centro ben definito nella metropoli e presenta poi una serie di aggregazioni attorno a città minori, ma importanti per attività economiche, industriali, sociali, ecclesiali. Tuttavia parlare di “città” e di urbanesimo a Milano è diverso che farlo in riferimento alle grandi megalopoli degli altri continenti. Percorrere città come Lima, Bombay, Bangkok, Nairobi mi ha sempre lasciato inquieto, facendomi ripensare a san Paolo che nel caos di Corinto invoca la protezione del Signore sulla sua attività evangelizzatrice e ne ottiene come risposta: “Non temere: ho un popolo numeroso in questa città”.
Nelle missioni diocesane più che contesti urbani ci siamo trovati ad animare, specialmente in Africa, comunità che prevalentemente si espandono in vaste aree rurali dove le condizioni di vita delle popolazioni non sono meno ardue di quelle cittadine e dove l’opera di evangelizzazione si scontra con tradizioni e culture religiose profondamente radicate e misteriose. Si può così comprendere che l’equilibrio dell’inculturazione nell’annuncio evangelico non può essere cercato a priori, ma si raggiunge anzitutto cercando di porsi in ascolto dell’originalità di ogni contesto umano, per coglierne i valori e i contrasti, per lievitare ciò che del Vangelo è rimasto nascosto e convertire ciò che vi si oppone.
Scrivendo più di dieci anni fa una riflessione sulla città dal titolo Alzati e va’ a Ninive credo di essere stato influenzato non solo dalle caratteristiche osservate nelle grandi città del mondo, ma anche dal metodo seguito da tanti missionari nel porsi in ascolto della realtà. Mi chiedevo allora se la città – mi riferivo ovviamente a Milano – sia anche luogo di salvezza. Ciò che osserviamo nelle megalopoli del mondo, nei loro contrasti di ricchezza e povertà, nell’accumularsi di disperazione e lotta per la sopravvivenza, le farebbe ritenere a prima vista luoghi di perdizione; credo che anche per questi agglomerati smisurati valga quanto mi sforzavo di esprimere allora: la città è anche un fatto morale; a essa la Chiesa è debitrice di Vangelo e di speranza. Scrivevo: “La Chiesa interviene nella vita dei singoli abitanti della città per offrire loro la Parola e i sacramenti che cambiano la vita e sostengono nel cammino verso Dio. Interviene anche nella vita della città come aiuto a comprendere il senso unitario e ultimo dell’esistenza dei rapporti umani che compongono e rendono significativa la vita di ciascuno e di tutti”. Ho visto tanti missionari lavorare con questo stile, che ritengo necessario anche nel nostro contesto di antica cristianità.
Mi piacerebbe soffermarmi su molti ricordi e luoghi precisi dell’Africa o, specialmente, dell’America Latina che è tuttora un laboratorio di pastorale per il futuro. Una riflessione particolare merita tuttavia il continente asiatico: il mio desiderio di vivere a Gerusalemme mi porterà ancora su quella terra, da dove è partito il cammino missionario degli apostoli di Gesù, che ha lasciato tracce significative non solo in Europa, ma in tutto il Medio Oriente fino alla lontana India.
Per quanto riguarda l’Asia i miei itinerari mi hanno portato in Giappone, Corea, Hong Kong, Macao, Indonesia, Bangladesh, India, Thailandia, Taiwan; mi ha stupito la vivacità di comunità cristiane solide, pur se minoritarie rispetto alle grandi religioni locali; comunità ben coscienti del significato dei grandi evangelizzatori che hanno dato inizio alla missione in Asia, quali san Francesco Saverio o Matteo Ricci. Il potenziale civile ed economico di quei paesi è enorme, ma colpiscono anche là la disuguaglianza nella distribuzione delle ricchezze, l’insufficiente sviluppo a livello di base e rurale, la fragilità di un sistema ancora dipendente dalle scelte strategiche dell’occidente sviluppato; talvolta tutto pare integrarsi perfettamente, in altri momenti la forza dirompente della finanza e degli interessi pare sottomettere tutto, anche le tradizioni più nobili. Nell’osservatore attento sorge la domanda su quale rapporto possa esserci tra sviluppo economico e sviluppo sociale, tra convivenza e giustizia, tra tradizioni religiose ed etica civile.
Un’analisi piuttosto semplificata tende ad attribuire ai grandi contrasti internazionali di oggi una base di carattere religioso, per esempio tra occidente cristiano e oriente islamico; la storia dell’Europa porta ancora i segni di guerre definite “di religione”. Personalmente resto convinto che il dialogo con le grandi tradizioni religiose orientali costituisca la sfida spirituale del futuro.
Sul versante del dialogo tra le religioni lo sforzo della Chiesa dal Concilio a oggi è andato crescendo e si è espresso al massimo livello con le iniziative di Giovanni Paolo II, specialmente gli incontri di Assisi del 26 ottobre 1986 e del 24 gennaio scorso, con la pubblicazione di un Decalogo dove tutte le religioni hanno dichiarato che qualsiasi ricorso alla guerra e alla violenza non può essere fatto in nome di Dio. Ebbene, proprio dall’Asia da cui arrivano spesso segnali inquietanti di rigurgiti fondamentalisti e di intolleranza religiosa potrebbero forse nascere e approfondirsi forme di dialogo interreligioso a servizio dell’uomo e della pace.
Una menzione speciale va fatta della Cina. Un Paese vastissimo e complesso, abitato da oltre un miliardo di persone che esprimono una civiltà antica e per noi un po’ indecifrabile, dove la Chiesa vive tra spinte in avanti dovute a cristiani coraggiosi e perseveranti, e difficoltà e persecuzioni a causa di un regime che non tollera interferenze al suo interno. Ho però registrato che, soprattutto a livello culturale, si aprono spazi interessanti, nei quali anche al mondo cristiano è consentito esprimersi: è un buon segno quando le persone e le idee cominciano a circolare liberamente e a confrontarsi.
La Cina, con il suo tumultuoso sviluppo, una repentina e talora ambivalente crescita economica e politica, può essere considerata un’icona della globalizzazione, dal momento che sul suo immenso territorio convivono le frontiere più avanzate della tecnologia e la miseria delle sterminate aree rurali, l’apertura al mondo e il nazionalismo, la tentazione di sposare il “nuovo” e la volontà di non perdere le radici del passato. I recenti cambiamenti che hanno orientato il paese nel senso dell’economia di mercato hanno portato a mutare mentalità, valori e stile di vita e anche i cristiani ne sono condizionati. Inoltre l’atteggiamento da sempre negativo del regime politico nei confronti della Chiesa ha impedito di realizzare il Concilio Vaticano II. Per questo abbiamo sostenuto con interesse un progetto dei missionari Comboniani di Macao per la formazione di sacerdoti, seminaristi, religiose e operatori pastorali laici.
Qualcuno ha osato paragonare l’azione evangelizzatrice della Chiesa, che risale direttamente al giorno di Pentecoste, a un’opera di prima globalizzazione, che troverebbe oggi possibilità infinite di espansione. Userei l’immagine della globalizzazione solo in senso analogico, non solo per la natura teologica tipica della Chiesa, ma anche come lettura di un fenomeno storico le cui caratteristiche odierne non sono paragonabili ad altri periodi della storia umana.
È stato profetico che nell’anno del giubileo il Papa abbia invitato a un gesto emblematico in campo internazionale, quale la remissione del debito estero dei paesi più poveri: un invito che tuttavia non ha trovato molta attenzione nei governi e nelle istituzioni economiche internazionali, come Giovanni Paolo II stesso riconosce nella Novo Millennio Ineunte. Un tema come questo entra con forza a discernere che nel fenomeno della globalizzazione molto va rivisto e modificato: anche le comunità italiane, grazie alla campagna lanciata dalla CEI e con la collaborazione di tutte le istanze missionarie, sono cresciute nella sensibilità a contenuti altrimenti ritenuti ostici, nella conoscenza dei rapporti esistenti tra meccanismi perversi della finanza internazionale e mancato sviluppo dei popoli, nella necessità di trovare stili di vita alternativi e ispirati più direttamente al Vangelo.
I missionari sperimentano in presa diretta i risultati negativi del fenomeno sia sotto il profilo sociale, legato quindi alla ingiusta distribuzione dei beni e al conseguente impoverimento di interi popoli, sia sotto il profilo culturale, quando vedono persone e comunità appiattirsi su modelli di comportamento che, accanto a indubbi valori, portano anche aspetti superficiali, appariscenti, devastanti. Questa riflessione investe non solo la vita e la testimonianza dei singoli cristiani, ma il modo di porsi della Chiesa stessa: la chiarezza del suo messaggio, la trasparenza del volto di Cristo, l’accoglienza di ogni fratello e sorella nel nome di Gesù, il gusto per l’essenzialità nei momenti dell’annuncio e della condivisione. Sono domande che ci vengono non solo dalle giovani Chiese, ma anche da quanti vengono in Italia da paesi stranieri e hanno diritto di trovare una Chiesa capace di trasmettere il Vangelo e di viverlo fino in fondo.
Tornando a Gerusalemme, mi piacerebbe rivivere lo stile stesso di Gesù, il suo rivolgersi alla gente in modo persuasivo, il gusto delle parabole raccontate a chi nella quotidianità ricerca i segni di Dio. E vorrei ripetere a tutti i missionari e missionarie che in questi anni ho incontrato, l’invito all’annuncio, con totale passione, ma senza angosce: come già scrivevo nel 1991 “Evangelizzare non significa necessariamente far cristiani tutti gli uomini né far tornare in chiesa tutti i battezzati e in particolare quelli che ci andavano e hanno smesso di andarci. (…) Evangelizzare significa anzitutto promulgare la buona notizia con fatti e parole e attuare l’annuncio così che sia possibile, a chiunque abbia buona volontà, poter cogliere la buona notizia nelle sue forme più genuine e autentiche, e quindi approfondirla e, se lo decide, accoglierla”.
cardinale Carlo Maria Martini, Mondo e Missione, ottobre 2022