La voglia di vivere dell’Africa, ma anche lo stile missionario da ritrovare nell’Italia di oggi: parla l’arcivescovo di Bologna Matteo Zuppi che il 26 ottobre sarà ospite al Pime di Milano
A Bologna ci è arrivato da poco più di un anno. Ma i senza casa per i quali ha condotto una delicata mediazione o i disoccupati che l’hanno sentito dire che destinerà a un fondo per la creazione di nuovi posti di lavoro gli utili della Faac – l’azienda per l’automazione dei cancelli lasciata in eredità alla Curia – hanno già imparato a conoscerlo molto in fretta. Vescovo tra la gente, come quando era a Roma nella parrocchia di Trastevere. Ma anche vescovo capace di guardare lontano, senza dimenticare quell’Africa che ha incontrato tante volte con la Comunità di Sant’Egidio.
E’ uno dei volti nuovi più significativi dell’episcopato italiano l’arcivescovo di Bologna Matteo Zuppi. Un romano scelto per l’Emilia da Papa Francesco seguendo il criterio del «pastore con l’odore delle pecore»; un arcivescovo che allo stile missionario dell’Evangelii Gaudium sta improntando tutto il suo episcopato. È per questo motivo che il Centro Pime lo ha invitato a Milano per l’edizione 2016 degli incontri dell’Ottobre missionario, affidandogli – nella serata del 26 ottobre – il tema della “Missione nella città aperta al mondo”. Tema che ogni giorno che passa scopriamo sempre più cruciale in questa nostra Italia di oggi, dove le migrazioni, le sfide economiche ma anche la stessa fisionomia ormai multietnica delle nostre comunità ecclesiali ci mostrano in maniera sempre più chiara il nostro essere parte dell’unica famiglia umana.
Monsignor Zuppi, che cosa significa per lei essere missionario nella città di oggi?
«Il confronto con la città non è un elemento accessorio della nostra fede. È la frontiera verso cui il Vangelo ci manda continuamente: il cristiano è sempre un inviato. E quando dimentica gli “estremi confini” della Terra finisce facilmente per distorcere il Vangelo, piegandolo e rendendolo una forma di benessere a sfondo solo individuale. Invece, il Vangelo è la bella notizia che ci raggiunge singolarmente e allo stesso tempo ci unisce, ci riconcilia con il mondo che ci circonda. Lo sforzo che il cinquantesimo anniversario del Concilio ci chiede è proprio questo: riprendere la passione per la città, guardare il mondo intorno a noi non con diffidenza o estraneità. Guardarlo, invece, con la simpatia immensa di cui parlava Paolo VI; immergerci andando per strada come ci dice oggi Papa Francesco».
Eppure queste nostre città tendono sempre di più a chiudersi. Pensiamo anche solo alla questione dei migranti…
«Le nostre città hanno perso la loro anima ed è per questo che le persone si sentono sempre più individui isolati. Così abbiamo più paura. Certo, oggi ci sono sfide e problemi reali con cui dobbiamo confrontarci. Ma se li affrontiamo solo con la paura, con la durezza, ci illudiamo di poterli limitare o rimandare. Al contrario, invece, non ci può essere una città che non sia accogliente. Se una città non è accogliente fatalmente invecchia, diventa invivibile per tutti. L’accoglienza invece fa bene alla città. Ed è la vera sfida su cui tutti quanti – e l’Europa in particolare – ci dobbiamo confrontare».
Prima di diventare vescovo, lei ha potuto conoscere, in tante occasioni, la realtà dell’Africa. Che cosa ha portato con sé di questa esperienza nel suo ministero a Bologna?
«Anzitutto l’idea che il mondo è unito. L’Africa può apparire lontana, ma se non la conosciamo non riusciamo a capire perché tanti suoi figli oggi cercano disperatamente un futuro in Europa o altrove. Ma c’è anche un altro volto dell’Africa: la sua fortissima voglia di vivere; chiunque la incontri percepisce una grande voglia di futuro e di speranza. “Non hanno niente e son contenti”, dicono molti appena vi mettono piede. Ecco: proprio questa voglia di vivere è quanto dobbiamo imparare ad ascoltare. Intanto, per ritrovarla, noi che tante volte l’abbiamo smarrita, finendo per concentrarci solo sulla preoccupazione di conservare ciò che abbiamo. Ma dobbiamo ascoltare questa voglia di vivere anche perché tanti figli dell’Africa sofferente possano trovare insieme a noi una risposta alla loro sete».
Lei ha conosciuto in prima persona anche l’Africa dei conflitti, partecipando per conto della Comunità di Sant’Egidio, alla mediazione che negli anni Novanta portò agli accordi di pace per il Mozambico. Qual è oggi la situazione nel Paese e che cosa può ancora insegnare quell’esperienza?
«La pace ha significato uno sviluppo incredibile per il Mozambico; come pure la guerra aveva significato ogni povertà. Quelli dal 1992 a oggi sono stati anni di grande sviluppo, ma anche di grandi contraddizioni e oggi il riemergere della violenza preoccupa moltissimo. Speriamo che gli incontri che sono stati avviati possano risolvere l’attuale crisi che rischia di acuire le difficoltà del Mozambico. Ma sono difficoltà che hanno la loro radice proprio nelle contraddizioni emerse nel modello di sviluppo: la ricchezza è ancora in mano a pochi e la povertà molto diffusa in un Paese che, al contrario, avrebbe potenzialità straordinarie con le ricchezze naturali che sono state scoperte. Sono opportunità che non vanno perse e speriamo che i mozambicani che cercano la pace possano trovare la via giusta per un uso equo delle ricchezze».
Il mondo di oggi resta profondamente segnato dai conflitti. Come essere da cristiani strumento di pace?
«Anzitutto costruendola noi, facendoci artigiani di pace. Cercando l’altro, andando incontro nell’accoglienza, nello sciogliere la coltre d’indifferenza che rende l’altro un nemico. Poi, però, c’è anche uno sforzo specifico che va compiuto di fronte ai tanti pezzi di quella guerra mondiale di cui parla Papa Francesco. Sappiamo che non è facile: promuovere il dialogo chiede un impegno particolare, l’esperienza stessa del Mozambico ce lo ricorda. Ma è l’unica strada sia per le popolazioni che vivono nelle aree interessate dai conflitti sia per noi. Altrimenti rimarremo comunque coinvolti. E non solo perché lo siamo già attraverso la questione dei rifugiati e dell’accoglienza. Ma anche perché non è vero che i conflitti rispettano i confini: sono sempre infezioni che circolano e raggiungono chiunque».
Siamo nell’Ottobre missionario e lo viviamo in un’Italia che fa sempre più fatica a donare vocazioni alla missione ad gentes. Come invertire la rotta?
«Non perdendo ogni occasione per uscire, guardando con occhi nuovi il mondo, la messe. E questo vale sia per i confini più lontani sia per quelli vicini. È un atteggiamento nuovo che dobbiamo prendere (o riprendere). Solo se sceglieremo sul serio la conversione missionaria a cui Papa Francesco ci ha invitato con l’Evangelii Gaudium potremo recuperare anche il gusto della missione ad gentes».
Ma a volte non le sembra che il legame tra il missionario che parte e la sua comunità d’origine resti troppo debole?
«Le comunità parrocchiali generalmente accompagnano i missionari, forse sono le Chiese diocesane qualche volta a far fatica. Sono d’accordo: i missionari non possono essere persone un po’ “particolari” che perseguono qualcosa di proprio; sono un ponte tra le Chiese. E dunque è un ponte che dobbiamo percorrere tutti. Qui a Bologna abbiamo un gemellaggio con la diocesi di Iringa in Tanzania; è un ponte attraversato da tanti giovani che vanno là per un periodo di tempo e da una solidarietà continua che si allarga, coinvolgendo anche altri attori. Ad esempio: proprio grazie alla presenza della Chiesa bolognese in Tanzania, una cooperativa come la Granarolo ha pensato un progetto caseario che ha costruito opportunità di lavoro e di sviluppo laggiù».
Stiamo vivendo le ultime settimane del Giubileo della Misericordia. Che cosa ci lascerà in eredità?
«La chiave attraverso cui capire il mondo intorno a noi. Il fatto che Papa Francesco abbia voluto il Giubileo della Misericordia, nel primo anno dopo la celebrazione del cinquantesimo del Concilio Vaticano II, mi sembra un’indicazione chiarissima. La Chiesa è una madre di misericordia e sente le domande e le sofferenze di tutti come proprie».
Tra i doni di questo Giubileo c’è stata anche la canonizzazione di Madre Teresa. Che cosa ci dice?
Che ognuno può fare molto. Che anche il poco, in realtà, è tanto. E che bisogna partire sempre dai poveri. Se stiamo dalla loro parte troveremo tutte le risposte»