Se diritti umani e libertà religiosa restano ancora una chimera, la Cina scricchiola pure sul versante economico e ambientale. Eppure continua a “conquistare” il mondo, anche culturalmente
Quando si parla di Cina si tende ancora troppo a usare la retorica del “Paese lontano e misterioso”, “impenetrabile”, “difficile da capire”, ma “pieno di sapienza”. Oggi, però, tale genere letterario è superato. Sulla Cina si può sapere di tutto. O perlomeno molto. Migliaia di cinesi vivono in mezzo a noi. E i prodotti Made in China sono ovunque. Viceversa, giovani da tutto il mondo (anche dall’Italia) trascorrono in quel Paese lunghi periodi di studio, imparandone la lingua. Inoltre, un numero crescente di ragazzi italiani, stremati dalla infinita crisi europea, si trasferiscono in Cina per lavorare in vari settori, specialmente nella ristorazione. E molti imprenditori vi investono e vi si recano regolarmente.
Non serve che ci apriamo alla Cina, essa è già aperta al mondo e ha assunto un ruolo di leadership nei campi che contano: politico, diplomatico, economico e militare. L’Africa ne è un esempio illuminante: gran parte del continente, infatti, è già sostanzialmente in mano alla Cina, che vi esercita il ruolo di superpotenza neocoloniale.
Anche dal punto di vista culturale, la Cina ha attivato, con enorme successo, uno strumento per farsi conoscersi, anzi per imporsi, al mondo: sono gli Istituti Confucio, presenti nelle principali università per promuovere ovunque la cultura e la lingua cinesi. In Italia ce ne sono almeno dieci, due dei quali nella sola Milano. Nei magri bilanci delle università, l’Istituto Confucio può permettersi finanziamenti che altri non hanno, e dunque è imbattibile per mezzi, ambizioni e risorse. Il risultato non è senza conseguenze: le attività gradite all’ideologia del governo cinese vengono promosse, mentre qualsiasi iniziativa “dissidente” viene inesorabilmente boicottata. L’Istituto Confucio, dunque, non promuove solo la cultura confuciana, ma anche e soprattutto il programma del governo cinese su tutti i temi scottanti: libertà, diritti, democrazia, religioni, Tibet, Taiwan, Hong Kong. E questo mentre il presidente Xi Jinping ha imposto al Paese una dura campagna contro la contaminazione dai “valori occidentali”, anche per arginare proteste e rivolte locali, provocate dai gravi squilibri presenti nel Paese e dall’emergenza ambientale.
È il prezzo che la Cina sta pagando per gli altissimi risultati raggiunti sul piano economico e industriale. L’economia è cresciuta costantemente, sotto il controllo delle oligarchie politiche, elevando il benessere generale della popolazione. Si può calcolare che circa il 10% della popolazione è diventata davvero molto ricca e lo dimostra con uno stile di vita gaudente e consumista sino all’estremo. Ma questo strabiliante risultato non è senza un prezzo molto caro, che continua a essere pagato da chi lavora ancora in condizioni di sfruttamento e pericolo per la propria salute. Negli ultimi 25 anni, nelle insicure miniere cinesi si è consumata una silenziosa e spaventosa strage di lavoratori. Centinaia di milioni di persone hanno abbandonato la vita, sobria ma umana, delle campagne, per riversarsi nelle nuove spaventose periferie delle megalopoli, dove si vive nel degrado. E mentre alcuni sono diventati ricchissimi, la grande maggioranza della popolazione ha migliorato solo di poco le sue condizioni di vita. Questo squilibrio, accentuato dalla corruzione e della protervia dei nuovi ricchi, è alla base di numerose contestazioni, spesso soffocate con mezzi piuttosto bruschi, e anche con la violenza.
Un altro grave prezzo pagato è quello dell’inquinamento: un esito prevedibile da anni, ma sul quale non si è saputo o voluto intervenire prima che fosse troppo tardi. Oggi è difficile trovare in Cina zone in cui terra, acque e aria non siano pesantemente inquinate. Pechino, che fino a pochi anni fa era una città ambita da molti stranieri, oggi è nella loro lista nera. Le regole per contrastare l’inquinamento sono state emanate già da anni, ma vengono raggirate dal pervasivo male della corruzione. Xi Jinping, al potere dal 2013, ha impostato tutta la sua campagna politica sulla lotta alla corruzione. La gente lo supporta, giustificando le sue misure repressive con la necessità di essere «cattivo con i cattivi». In questo modo, ha eliminato il suo più pericoloso avversario, Bo Xide che, pure lui, aveva fatto carriera utilizzando lo stesso cavallo di battaglia. Se è vero che Xi Jinping elimina tanti corrotti, questi ultimi spesso sono anche i suoi avversari politici caduti in disgrazia.
L’attuale presidente, del resto, è un leader molto ambizioso e si propone di passare alla storia come successore non dei due leader a lui precedenti (i modesti Jiang Zemin e Hu Jindao), ma piuttosto di Deng Xiaoping e dello stesso Mao Zedong, i due padri-padroni della Cina comunista, gli “ultimi due imperatori”. Per raggiungere questo scopo, Xi non esita a riabilitare il linguaggio ideologico del “partito che ha sempre ragione” e la retorica della “rivoluzione culturale”. Xi ha mostrato, in diverse circostanze, una grande astuzia politica, e nello stesso tempo una scarsissima tolleranza verso le critiche.
Promuove senza esitazione una minacciosa politica di rafforzamento militare nelle aree di tensione con i vicini: Taiwan, Vietnam e soprattutto Giappone e Filippine. Il presidente mostra ben poca tolleranza anche verso chiunque osi criticarlo o parlarne in modo meno che ossequioso. Il drammatico rapimento di cinque piccoli editori di Hong Kong (ancora non rimessi in libertà), che stavano preparando un libro su di lui, ha fatto rabbrividire nel profondo l’importante metropoli ad amministrazione speciale. Il rispetto dei diritti umani e della libertà religiosa sta drammaticamente facendo passi indietro: ne soffrono giornalisti, avvocati, attivisti ed esponenti religiosi. Negli ultimi cinque anni, quasi 150 fedeli tibetani si sono immolati con il fuoco per protesta. Le popolazioni uigure della provincia occidentale di Xinjiang sono sottoposte a una crudele oppressione. La più drammatica riprova è la condanna all’ergastolo di Ilham Tohti, 44 anni, professore dell’Università delle nazionalità di Pechino, noto per le sue posizioni moderate e non indipendentiste, nonché portavoce dei diritti del suo popolo. Anche Ursula Gauthier, giornalista francese che aveva denunciato questa vicenda, è stata espulsa dalla Cina pochi mesi fa.
Anche i cristiani soffrono. Più di mille croci sono state distrutte e numerose chiese sono state demolite. La misura riguardava, all’inizio, la sola città di Wenzhou, nella ricca provincia Zhejiang, ma è stata poi estesa ad altre città. Wenzhou è nota come la “Gerusalemme della Cina”, per la forte presenza cristiana (raggiunge il 20%). L’espansione del cristianesimo evangelico in quella città è proporzionale a quella degli affari: i circoli cristiani, infatti, sono anche quelli imprenditorialmente più vivaci. Da questa città molte persone emigrano in vari Paesi, tra cui l’Italia, per incrementare i guadagni familiari.
l cristianesimo, tuttavia, continua a crescere nonostante, e non grazie, al governo. Prova ne è la recente massiccia repressione, che ha posto fine a un ventennio di vaga (e passiva) tolleranza.
l cattolicesimo è radicato soprattutto nelle campagne, che si stanno però spopolando. Nelle città, ad eccezione forse di Shanghai, Pechino e Xian, la vita cattolica scarseggia di vitalità. Il catecumenato è piuttosto lungo per una società in rapida trasformazione e dove le opzioni religiose sono basate spesso sull’emotività. Il cattolicesimo, inoltre, si presenta come qualcosa di piuttosto complesso e fin troppo tradizionale. I gruppi carismatici, invece, offrono la possibilità di entrare nelle loro vivaci ed esuberanti comunità anche solo dopo una serata elettrizzata da un predicatore affascinante. Ma, come diceva il grande vescovo di Xian, Anthony Li Du’an, l’importante è che il nome di Gesù sia sempre più conosciuto. Non mancano gli evangelici che, in un secondo momento, apprezzano la ricchezza della tradizione cattolica.
Il pubblico televisivo ha potuto recentemente accostarsi alle figure fondamentali del cattolicesimo cinese: Matteo Ricci, il suo migliore discepolo Paolo Xu Guangqi, il gesuita astronomo Adam Schall Von Bell e il milanese Giuseppe Castiglione, pittore e missionario. La sceneggiatura di questi film di successo, prodotti in collaborazione con lo studio televisivo Guangqi, dei gesuiti di Taiwan, deve tener conto del “politicamente corretto”. Tuttavia rimane il fatto molto positivo dell’impatto di queste storie su milioni di spettatori.
È difficile stabilire il numero esatto di cattolici, e se siano o meno in crescita. Si ritiene che oscillino tra i 9 e 12 milioni, con circa 115 vescovi (quasi tutti riconosciuti dalla Santa Sede), 5.000 suore e 4.000 preti. Sono numeri modesti in percentuale, ma che indicano che la Chiesa cattolica è una comunità viva e forte. C’è una sola Chiesa cattolica in Cina, e la rappresentazione delle “due Chiese” dovrebbe essere abbandonata una volta per tutte. È piuttosto la sventurata politica religiosa governativa a imporre dolorose divisioni, create per indebolire la Chiesa stessa.
Le comunità che, comprensibilmente, si rifiutano di registrarsi presso il governo (chiamate perciò anche “clandestine” o “sotterranee”) sono sottoposte al controllo e agli abusi della polizia politica. Le comunità aperte, invece, sono vittime delle intrusioni del ministero per gli Affari religiosi e dell’Associazione patriottica, una emanazione del dipartimento del Fronte unito del Partito comunista.
La Chiesa cattolica, fortemente limitata nella sua libertà, non gode della stessa capacità di espansione delle comunità evangeliche. È, inoltre, fortemente in difficoltà nel raccogliere e nel superare le sfide imposte della secolarizzazione e della veloce modernizzazione del Paese. Sono sfide vissute anche in altre nazioni, comprese quelle europee. In Cina, tuttavia, i cattolici hanno un problema in più: la mancanza di vera libertà nell’evangelizzazione e nella promozione pastorale.
La Chiesa in Cina oggi è guidata da una schiera di giovani preti, religiose, vescovi e laici. Molti di loro spendono con generosità la propria vita per l’evangelizzazione, in un contesto fortemente provato da limitazioni e soprusi. Uno di questi leader, Pedro Yu Heping, un giovane e coraggioso prete della comunità “sotterranea”, è stato trovato morto il 7 novembre 2015. Molti sono convinti che si tratti di una morte violenta. Padre Yu, infatti, era molto influente tra i giovani e in Internet. Era particolarmente attivo nell’organizzare corsi di formazione per catechisti e religiose. Imitando “il cammino di Santiago”, che aveva conosciuto nel corso dei suoi studi in Spagna, portava giovani volontari in zone remote e povere del Paese. Era anche impegnato nel promuovere il pensiero cattolico, in dialogo con i “cristiani culturali”, contribuendo alla pubblicazione di una rivista teologica semiclandestina. L’inquietante morte di padre Yu è un drammatico ammonimento di quanto la Cina sia distante da una accettabile libertà religiosa. Ma, nonostante tutto, la crescita del cristianesimo, anche nella forma della “febbre cristiana” o dei “cristiani culturali”, continua a rappresentare un importante segno di vitalità e di cambiamento.