Una diocesi aperta alla missione, in cui laici e sacerdoti sono corresponsabili delle scelte. Intervista al vescovo Claudio Cipolla
Un prete su sette nella diocesi di Padova è stato in missione. Un patrimonio che ora il vescovo monsignor Claudio Cipolla sta cercando di valorizzare, rendendo i fidei donum animatori nelle comunità locali. Educazione alla solidarietà e all’accoglienza, trasparenza del bilancio della diocesi e attenzione ai giovani sono altri punti fermi dell’episcopato di un pastore “semplice”, scelto da Papa Francesco e da due anni alla guida di una Chiesa locale aperta al cambiamento. Nella sala dove si svolge il nostro colloquio, il vescovo indica i ritratti alle pareti: monsignori e personalità del passato della Chiesa padovana. E confida: «Vorrei presentare agli ospiti un altro volto di Chiesa, più realistico: i giovani negli oratori, i preti in mezzo alla gente, l’impegno missionario».
Monsignor Cipolla, la diocesi di Padova ha una grande tradizione missionaria. Dove siete presenti?
«Siamo da quasi quarant’anni in Brasile nello Stato di Rio de Janeiro e abbiamo appena iniziato anche in Amazzonia a Roraima. Abbiamo tre preti in Thailandia con un impegno delle diocesi del Triveneto. Cinque sacerdoti sono in Kenya; altri tre sono in Ecuador. E accanto ai preti ci sono numerosi laici, in tutto abbiamo 21 fidei donum nelle missioni diocesane. Cerco anche qualcuno da inviare in Etiopia col mio predecessore monsignor Antonio Mattiazzo, partito quando ha lasciato la diocesi, a 75 anni. Sono almeno un centinaio i preti in diocesi che sono stati in missione per un periodo della loro vita. Circa uno su sette. Rappresentano il dono gratuito di una Chiesa all’evangelizzazione. Un significato che forse non è ancora totalmente compreso»
Lei insiste sulla corresponsabilità di preti e laici. In missione ma non solo. Perché?
«Sono convinto che il ruolo dei sacerdoti vada rivisto. Abbiamo bisogno di una conversione che rimetta il prete dentro la comunità e restituisca alla comunità la centralità nella pastorale. La parrocchia resta una formula tradizionale, fortemente radicata sul territorio, ma la comunità è là dove la gente vive, può essere di varia composizione e natura. L’importante è che si lasci guidare dallo Spirito e sia aperta a tutti, anche a chi si fa vedere solo una volta l’anno».
Quale deve essere, quindi, il ruolo del sacerdote?
«Più che di ruolo parlerei di servizio, che si manifesta in molti modi: i sacramenti, l’annuncio del primato di Dio, il discernimento delle vocazioni, anche laicali. Ma anche la riappacificazione all’interno delle comunità, la riconciliazione e la comunione con tutte le altre comunità e con la Chiesa. Il sacerdote deve continuare ad essere un cristiano, un animatore, un discernitore di carismi, non l’agente pastorale unico. Non un capo. Le lettere apostoliche sono scritte alle comunità, non ai “parroci”».
Come vi rapportate ai giovani? È già in atto qualche iniziativa in vista del sinodo annunciato dal Papa per l’autunno 2018?
«In realtà, senza saperlo, a Padova abbiamo anticipato il sinodo sui giovani con il sinodo “dei” giovani. L’abbiamo aperto alla vigilia di Pentecoste del 2017. Ora ci sono 4.500 ragazzi e giovani, dai 18 ai 35 anni, in circa 700 gruppi, che stanno riflettendo su alcune piste che loro stessi hanno costruito. Abbiamo chiesto ai giovani cosa, secondo loro, il Signore chiede alla Chiesa (non cosa “tu” vuoi dalla Chiesa) e di portare il loro contributo, a partire dalla loro storia, dalle domande che hanno nel cuore, dalle aspettative, per arrivare anche a cosa, secondo loro, la comunità cristiana dovrebbe fare. Abbiamo incluso in questo processo sia i giovani preti che i giovani del carcere e addirittura quelli delle nostre missioni in tre continenti. Dal carcere ho ricevuto un messaggino proprio ieri sera. Sono contenti, dicono che non si aspettavano questa occasione di confronto e approfondimento. Coinvolgere 4.500 giovani oggi, pur in una diocesi di oltre un milione di abitanti, non è poco».
Perché avete scelto di coinvolgere in un cammino qui in Italia giovani di altri Paesi?
«Ci accorgiamo che altre Chiese sono più povere ma più vivaci di noi. Coinvolgerli ci fa del bene. Diamo tutti gratuitamente, noi e loro. La missione è bella per questa gratuità. I nostri 17 preti in missione sono un dono e basta. Quando rientrano non è così necessario che portino qui delle strategie pastorali, magari difficilmente applicabili al nostro contesto. Bastano la loro persona e il cambiamento che la missione ha prodotto nel loro animo, il bene che spontaneamente si sprigiona dal loro cuore».
Il mondo oggi è arrivato a casa nostra. La diocesi è impegnata anche sul fronte dell’accoglienza dei rifugiati?
«Ho nominato un assistente spirituale per i due centri (a Conetta e a Bagnoli) che abbiamo sul nostro territorio con alcune migliaia di stranieri, per manifestare anzitutto la nostra presenza agli immigrati cristiani che, tra l’altro, hanno realizzato un coro che gira per le parrocchie e anima le liturgie domenicali. Come diocesi non ci siamo impegnati nella gestione di centri di prima accoglienza. Con la Caritas lavoriamo piuttosto per sensibilizzare le comunità locali all’accoglienza diffusa, promuovendo occasioni di informazione e conoscenza della realtà del fenomeno migratorio. Cerchiamo, inoltre, di aiutare parrocchie e comuni che scelgono la microaccoglienza, che favorisce meglio a nostro parere una possibile integrazione, anche se non sempre siamo sostenuti dalle amministrazioni locali».
Padova è la prima diocesi in Italia ad avere reso pubblico il proprio bilancio, pubblicandolo anche on line. Perché questa scelta?
«Abbiamo tante responsabilità di fronte alla gente in campo economico, per le risorse che ci sono affidate e per quello che abbiamo ereditato dalla storia. Stiamo rendendo pubblico tutto quello che possiamo. Da due anni pubblichiamo il bilancio di ciò che è di stretta competenza della diocesi. La gente vede come spendiamo, quanto, per chi e per che cosa. È un lavoro molto impegnativo sia sul piano amministrativo che di mentalità, bisogna convincere gli enti a condividere la propria contabilità. L’operazione trasparenza, però, ci aiuta ad avere più alleati e dei buoni suggerimenti, che siamo ben lieti di accogliere se qualcuno ci aiuta a migliorare. Ho fatto una mia promessa personale venendo in diocesi: andar via con gli stessi soldi miei con cui sono venuto e non mettere via nulla del mio ministero. Qui in curia pago anch’io vitto e alloggio».
Quali sono le esperienze nella sua vita che l’hanno preparata a diventare vescovo?
«Cerco di non rivestire un ruolo, anche se tutto intorno spinge in questa direzione. Nel mio ministero sacerdotale sono stati importanti i percorsi fatti con i giovani, in particolare con gli scout e in parrocchia, sul valore del rispetto e della valorizzazione degli altri. Un’esperienza che mi ha aiutato ad avere fiducia nel mondo giovanile. Anche la chiesa in un garage, da giovane prete, con poca gente, a Castiglione delle Stiviere, ha lasciato un segno nel mio animo. Poi sono venuti le comunità grandi e vivaci, l’impegno con la Caritas, vale a dire la Chiesa impegnata sul territorio, ma sempre insieme ad altri, mai in modo autosufficiente. Noi cristiani abbiamo il compito di costruire una città bella, non una bella diocesi. Cerco di essere cristiano prima di essere vescovo, come prima, quando cercavo di essere anzitutto un parrocchiano prima che un parroco. La gente si allontana dalla parrocchia tradizionale centrata attorno al prete che fa tutto. Nell’Occidente secolarizzato servono piccole comunità vive e partecipi. La gente appare sempre impegnata in tante cose, con l’agenda piena, ma forse è frenesia alla ricerca di ciò che veramente non trova. Non ha davanti a sé grandi proposte. E la nostra “perla” rimane nascosta».