Un parallelo tra il fondatore del Pime monsignor Angelo Ramazzotti e Papa Francesco: lo traccia Francesca Consolini – esperta di storia della Chiesa, curatrice della “Positio”, il testo di riferimento della causa di beatificazione – in un intervento preparato per il convegno sull’eredità di Ramazzotti tenutosi al Pime di Milano il 15 novembre 2014. Ne pubblichiamo uno stralcio
Per chi lo conosce un poco, viene quasi spontaneo ricondurre certe frasi e parole di Papa Francesco a monsignor Angelo Ramazzotti, che fu davvero un testimone di quella sobrietà di stile che tanto ammiriamo nel Papa.
«Il grido dei poveri non ci lasci mai indifferenti», ha detto il Santo Padre l’8 dicembre 2013. Lo stile di vita sobrio, ma potremmo arrivare a dire ridotto all’essenziale, caratterizzò tutta la vita di Ramazzotti. Una povertà scelta per amore di Gesù povero, ma soprattutto per poter dare a chi aveva meno, ai poveri che furono sempre fra i suoi prediletti.
A Saronno nel 1836 aveva aperto l’orfanotrofio-oratorio nel convento di San Francesco che fu poi la prima sede del Seminario Lombardo. Il mantenimento di questi fanciulli assorbiva ogni sua risorsa, come ricordava padre Angelo Taglioretti «egli si esaurisce e si fa povero veramente; povero e gramo anche negli abiti per dar pane ai bisogni e materiali e spirituali degli orfani e dei giovanetti».
Come oblato conduceva vita comune con i confratelli e da vescovo di Pavia e patriarca di Venezia volle continuare a fare vita di comunità con quelli che chiamava i “preti di famiglia”. A Venezia, in particolare, il regime di povertà personale del vescovo, divenne ancora più rigido. La città contava diecimila poveri registrati, ancora di più quelli che si possono definire “clandestini”. Il consueto stile di vita divenne ancora più sobrio, per poter provvedere ai poveri: «Negli ultimi tempi, sopracrescendo i bisogni dei poveri e venendogli meno a tanto dispendiare i redditi della mensa, ordinò che si vendessero le argenterie della casa, non ritenendo che quanto serviva all’uso giornaliero della tavola, e per pochi. E v’ebbe un dì, nel trovandosi sprovveduto affatto di moneta, né sapendo come e dove cercarne, uscì dalla stanza e a’ poveri raccolti nell’anticamera, mal frenando il pianto: non ho più nulla, esclamò, son senza nulla. Non mi resta a vendere che questa povera veste e la croce che mi pende dal collo».
Questo stile di vita povero ed essenziale non era fine a se stesso, ma per mons. Ramazzotti era condivisione con i più poveri al fine di poter dare loro quanto più poteva.
Papa Francesco il 30 maggio 2013, nell’omelia della solennità del Corpus Domini, ha detto: «Quante volte noi cristiani abbiamo questa tentazione! Non ci facciamo carico della necessità degli altri, congedandoli con un pietoso: “Che Dio vi aiuti!”. Ma la soluzione di Gesù va in un’altra direzione, che sorprende i discepoli: ‘Voi stessi date loro da mangiare’”. Ecco la distribuzione dei pani e dei pesci, “un momento di profonda comunione: la folla dissetata dalla Parola del Signore, nutrita dal suo pane di vita».
Mons. Ramazzotti invece visse la condivisione con il povero, proprio come il Papa ci ha più volte ricordato: toccando la sua carne, guardandolo negli occhi.
A Venezia, data la situazione di estrema povertà, i poveri affollavano il palazzo patriarcale fin dal primo mattino; il vescovo li riceveva tutti singolarmente, non delegando, come era in uso, questo compito al suo elemosiniere o ai domestici. Don Federico Salvioni, uno dei suoi segretari, così scriveva: «La miseria qui si fa così grande che anche il pane della carità non si può offrire con così largo cuore. Si immagini, Signora Superiora, che una sola ditta lasciò ieri in libertà 101 lavoratori, il che vuol dire 101 famiglie senza pane e tutte vengono dal Patriarca; così il numero dei bisognosi cresce ogni giorno».
Di carattere sereno e bonario, monsignor Ramazzotti sapeva essere esigente e non risparmiava parole di fuoco rimprovero, quando si accorgeva che un pastore non voleva addosso l’“odore delle pecore” e sdegnava le “periferie” segnate dalla miseria. Il 19 luglio 1858, indirizzò una durissima lettera al suo clero poiché nessun sacerdote si era presentato al bando di concorso per le parrocchie dell’Estuario, le più povere della diocesi, segnate anche dalla malaria. Egli stesso, con scelta innovativa, aveva voluto iniziare, l’8 giugno 1858, la visita pastorale proprio da quelle parrocchie perché erano le più misere, la vera periferia della città.
Il suo richiamo, nella lettera circolare, è alla fedeltà alle promesse fatte al momento dell’ordinazione di darsi tutti a Cristo e alle anime.
Le povere parrocchie dell’Estuario, furono sempre le predilette del Patriarca, le prime dove egli si recò anche nelle due successive visite pastorali «tanto gli stavano a cuore i più meschini, non già i meglio agiati e i ricchi fra i suoi diocesani».
Vivere e morire povero fra i poveri era la sua aspirazione; lo ripeteva spesso ai suoi “preti di famiglia”: «che bella cosa, che bella il morire povero». Fu davvero così. Ed «essendo l’eredità del defunto, quasi di nessuna entità per le tante beneficenze da lui fatte in vita”, ebbe solo il funerale in S. Marco. Era morto, come si diceva: “il padre dei poveri”.
Scriveva: «Non bisogna mettere a confronto le nostre privazioni cogli agi dei più ricchi, ma gli agi nostri con le crudeli privazioni di tanti, i quali non oserebbero neppure aspirare a un benessere, del quale noi godiamo, senza che l’abitudine ce ne lascia quasi più accorgere […]. Ogni povero pertanto, che Dio mette sui nostri passi riguardiamolo come un messo della Provvidenza, anzi in lui rispettiamo, amiamo Gesù Cristo; severi contro di noi, compassionevoli verso di loro».