È stato ucciso il primo agosto di 25 anni fa, insieme all’amico musulmano Mohammed. Ma il pensiero, gli appelli, la “profezia” di mons. Claverie – vescovo di Orano, in Algeria, beato per volere di papa Francesco – sono ancora di grandissima attualità. «Bisogna trovare il modo di vivere insieme»
«Il dialogo è un’opera che va continuamente ripresa: è la sola possibilità di disarmare il fanatismo, in noi e nell’altro. È attraverso il dialogo che siamo chiamati a esprimere la nostra fede nell’amore di Dio che avrà l’ultima parola su tutte le potenze di divisione e di morte». Sono parole di grande attualità, in quest’epoca di terrorismo cieco e di ideologie mortifere, che fanno spesso appello a un (falso) principio religioso. Ma sono state pronunciate il 9 ottobre 1981, nell’omelia di insediamento come vescovo d’Orano da mons. Pierre Claverie.
Domenicano, grande uomo di cultura e di azione, ma anche di profonda spiritualità e – appunto – di dialogo, mons. Claverie ha segnato profondamente la Chiesa e il popolo di Algeria. E non solo. A 25 anni dall’assassinio, il primo agosto 1996 – insieme all’amico Mohamed Bouchikhi a causa dell’esplosione di una bomba sulla porta della curia – la sua memoria, i suoi scritti, la sua testimonianza continuano a parlare. Dentro e fuori l’Algeria, Paese in cui è nato e vissuto: dentro e fuori la Francia, di cui la famiglia era originaria. La sua è diventata col tempo una voce universale, che riemerge oggi nell’attualità fosca che ci circonda come una luce che indica una possibilità di futuro. «Bisogna trovare il modo di vivere insieme», insisteva di continuo, riferendosi, certo, agli anni bui che attraversava l’Algeria, funestati dal terrorismo islamista e dalla violenta reazione dell’esercito; ma avendo in mente un orizzonte molto più vasto che abbracciava l’umanità intera.
Ma quelle riflessioni, quel suo modo di vivere la sua appartenenza religiosa con uno sguardo attento alla situazione socio-politica, continuano a essere di grande attualità anche oggi. Così come il tema del dialogo, filo conduttore di molti suoi interventi. E innanzitutto della sua vita.
Dialogo non «per tattica o opportunismo – diceva -, ma perché è costitutivo della relazione di Dio con l’umanità e degli uomini tra di loro». Dialogo esigente anche, lontano da qualsiasi tentazione narcisistica o autoassolutoria. «Non si costruisce niente sulla menzogna, sulla paura di non piacere o sulle mezze verità», credeva fermamente.
Mons. Claverie, questa coerenza, l’ha pagata con la vita. Le sue denunce, i suoi scritti, gli interventi sui media… Poneva questioni e domande scottanti. Soprattutto sulla possibilità di vivere insieme, da una parte come dall’altra del Mediterraneo: popoli, culture e religioni diverse. Parlava, più di trent’anni fa, delle necessità di costruire un “mondo plurale”, ma anche di disinnescare il pericolo di un islam «sradicato dai suoi valori profondi, al tempo stesso umani e spirituali, e divenuto un fattore politico, che lo trasforma oggi in uno strumento di violenza».
Una visione lucida e, al tempo stesso profetica, soprattutto nell’indicare la possibilità di un vivere insieme in «uno spazio che non sia monopolizzato da una religione, da una cultura, da un tipo di ideologia».
La morte violenza di mons. Claverie ha chiuso la lunga carneficina dei cristiani d’Algeria: 19 tra religiosi e religiose assassinati dai terroristi islamici, a partire dalla primavera del 1994. Poco prima di lui, nel marzo del 1996, erano stati rapiti e poi uccisi i sette monaci trappisti di Tibhirine. Tutti loro l’8 dicembre 2018 sono stati proclamati beati in una causa collettiva di beatificazione, intitolata “Mons. Claverie e i suoi 18 compagni”. Un riconoscimento da parte della Chiesa universale della straordinarietà delle vite donate di questi uomini e donne. Ma anche un modo per continuare a ricordarli e per illuminare, attraverso questo ricordo, pure il nostro presente.