da Firenze
Tra i delegati riuniti al Convegno ecclesiale dopo la scossa impressa da Francesco con il suo discorso alla Chiesa Italiana. Tanta consapevolezza che la missione oggi si gioca nella capacità di costruire relazioni a tutto campo. Ma l’attenzione alla missione “ad gentes” anche qui si vede poco
Sono oltre duemila, sono arrivati a Firenze da tutta Italia in rappresentanza delle 230 diocesi del nostro Paese: vescovi, preti, laici, religiose e religiosi. Hanno ascoltato martedì da papa Francesco il suo sogno di una Chiesa che non ha paura di essere “incidentata”, di stare tra la gente senza la paura di poter perdere qualcosa ma solo l’ansia di ritrovare ancora nel volto “scavato” dell’umanità di oggi il volto di Gesù. Parola che ora – a gruppi molto piccoli, di appena dieci delegati ciascuno – ora qui a Firenze si prova a cominciare a tradurre in scelte e percorsi concreti.
Domani il Convegno proverà a delineare alcune conclusioni, pur sapendo che potrà essere solo l’inizio di un cammino molto lungo. Si respira chiara a Firenze la consapevolezza di una Chiesa che ha intuito la necessità di un cambiamento di passo, ma che – anche al di là del trauma provocato dagli scandali – fatica ancora a capire bene da dove ricominciare. Ed è un discorso che vale anche per il mondo missionario a Firenze2015. Una presenza che si vede poco (“siamo una decina qui, un po’ come le mosche bianche”, commenta padre Rosario Giannattasio, superiore per l’Italia dei Missionari Saveriani), come nelle riflessioni si avverte poco quello sguardo in grado di abbracciare tutto il mondo e le sue sfide globali che Francesco ha delineato nell’enciclica Laudato Sì. L’unico segno visibile è il documento del tavolo degli organismi missionari che viene distribuito all’ingresso, fuori dalla Fortezza Da Basso che ospita i lavori; quasi un segno anche questo.
C’è però una consapevolezza di uno stile missionario che il cattolicesimo italiano è chiamato a ritrovare. “Il Papa indica l’orizzonte di una Chiesa in cui ciascuno parte dalle relazioni con gli altri – ci spiega ad esempio mons. Luciano Monari, vescovo di Brescia -. Francesco è fermamente convinto che nella relazione umana l’uomo trova se stesso e così porta a Gesù Cristo. Lo spazio per l’evangelizzazione è quello. Se le relazioni sono autentiche la trasmissione di Gesù Cristo diventa immediata, semplice. Il punto però – come papa Francesco non si stanca di ripetere – è scardinare un io costruito su se stesso, preoccupato solo di affermare il proprio potere sul mondo e sugli altri. Questo non è solo anticristiano: è antiumano”.
Il “nuovo umanesimo”, appunto, il tema che nel contesto eloquente di Firenze è stato posto al centro di questo Convegno, il quinto nella cadenza decennale che la Chiesa italiana si è data. Per quale modello di Chiesa? “La tentazione è sempre la stessa: qualcuno dentro e qualcuno fuori, con il rischio di diventare un piccolo gruppo di presunti giusti in mezzo al mondo – commenta don Giovanni Nicolini, delegato dell’arcidiocesi di Bologna, dove è volto visibile della misericordia in un quartiere di frontiera come quello della Dozza. -. E’ chiaro, invece, che il Papa ormai ha sostituito questa vecchia immagine della fortezza assediata con l’invito ad andare fuori. Tra l’altro con la sua lettura un po’ eretica della parabola delle pecore: ad essere andate via sono ormai in 99 e noi rischiamo di rimanere qui a pettinare l’unica rimasta. Nella prospettiva del Papa la Chiesa oggi è tutta fuori. O, piuttosto, tutta dentro e dappertutto. Dove la logica è quella del Vangelo: tu hai fatto una strada e io ne ho fatto meno, un altro si è stancato ed è fermo, un altro ancora vuole salutarci ed andarsene ma noi siamo preoccupati che continui anche lui con noi il pellegrinaggio verso la casa del Padre…”.
Ma – appunto per questo – in questa strada c’è posto anche per chi abita fuori dall’Italia? Possiamo continuare ad accorgerci di lui solo quando bussa alla nostra porta? Su questo – guardando il microcosmo ecclesiale radunato a Firenze – l’impressione è che ci sia ancora parecchio da camminare. “L’attenzione all’ad gentes resta carente, la missione è declinata sempre solo ad intra – osserva padre Giannattasio -. Vedremo domani le conclusioni, ma dobbiamo trovare il modo di ricordare che la missione oggi è anche qui, certo, ma che una Chiesa è viva solo se sa proiettarsi anche all’esterno. Noi istituti missionari dovremo prendere l’iniziativa su questo. Riconoscendo che c’è anche una responsabilità nostra. Perché siamo così assenti in questo tipo di appuntamenti? Probabilmente è l’indice del fatto che non siamo così coinvolti all’interno delle singole diocesi, se non in un servizio che non è il nostro specifico”.
La Chiesa italiana oggi fa fatica a donare vocazioni al mondo, ma a Firenze è un tema che non emerge. Perché? “Non è solo una questione di Chiesa, ma del nostro stile di vita – risponde mons. Monari -. Quando una società diventa ricca tende a godersi questa ricchezza. A tutti i livelli la capacità di aprirsi al di fuori diminuisce. Fino al momento in cui diventiamo più poveri e allora ci lasciamo di nuovo provocare. Anche nella Chiesa stiamo vivendo questa parabola, che accomuna tutto il nostro mondo occidentale”.
E’ anche vero – però – che la stessa attenzione al mondo nell’Italia di oggi chiede anche la disponibilità a lasciarsi declinare in nuove forme. “Il mondo è qui, basta entrare in un aula scolastica oggi per rendersene conto. – osserva Valentina Soncini, teologa e insegnante nell’arcidiocesi di Milano e nel seminario del Pime di Monza -. E dunque – per citare i verbi che hanno scandito la riflessione qui a Firenze – forse oggi dovremmo capire che l’ad gentes ci interpella non solo sul tema dell’uscire, ma anche sull’abitare”. Lo stile dell’ospitalità come strada per ritrovare anche il coraggio di partire. Il dopo Firenze2015 per il mondo missionario forse comincia da qui.