«Quella volta che insegnai il thai a Giovanni Paolo II»

«Quella volta che insegnai il thai a Giovanni Paolo II»

Nel giorno in cui ricorre il centenario della nascita di Karol Wojtyla riproponiamo dal nostro archivio una testimonianza di padre Angelo Campagnoli – missionario del Pime scomparso nel 2012 – che riassume bene uno dei volti di san Giovanni Paolo II: i suoi viaggi missionari ai quattro angoli del mondo

 

Oggi tutto il mondo ricorda il centenario della nascita di Karol Wojtyla, san Giovanni Paolo II, il Papa che con il suo Pontificato ha lasciato il segno sull’ultimo scorcio del Novecento traghettando la Chiesa nel nuovo millennio. Di Giovanni Paolo II vogliamo ricordare qui uno dei suoi volti più cari al mondo missionario: i suoi viaggi apostolici – ben 104 toccando in tutto 129 nazioni – che per molte Chiese locali dell’Africa, dell’Asia, dell’America Latina e dell’Oceania sono stati momenti fondamentali nella propria storia. Che cosa erano i viaggi di Wojtyla? E come li preparava? Lo raccontiamo ripescando dal nostro archivio una testimonianza: quella di padre Angelo Campagnoli (1936-2012), missionario del Pime scomparso nel 2012, che qualche anno fa su Mondo e Missione ricordava così la singolare esperienza vissuta accanto a Giovanni Paolo II alla vigilia del viaggio apostolico che Wojtyla compì nella sua Thailandia nel 1984.

 

Il 22 febbraio 1984 ero in Aula Nervi con un gruppo di sacerdoti di Milano, compagni di classe nel seminario diocesano prima che passassi al Pime. Celebravamo il venticinquesimo di sacerdozio. Uno di noi, monsignor Renato Corti (già vescovo ausiliare di Milano e poi vescovo di Novara e cardinale, scomparso proprio pochi giorni fa ndr), ci aveva assicurato qualche minuto in privato col Papa dopo l’udienza generale. E così fu. Mons. Corti ci presentò ad uno ad uno e quando fu il mio turno spiegò al Papa che ero del Pime e missionario in Thailandia.

«Sei in Thailandia? Da quanto tempo?», domandò il Papa. «Da dodici anni, santità». «E vivi con i locali, parli la loro lingua?», incalzò. «Sì, ma rischio di dimenticare l’italiano, perché sono solo in mezzo a loro: il confratello italiano più vicino è a oltre cento chilometri». «Bene, stasera vieni a cena da me».

Rimasi di stucco. Ma il peggio fu che rincorsi il Papa per dirgli: «Scusi, santità. Stasera non posso». E prima che riuscissi ad aggiungere una spiegazione, il Papa con un sorriso che per me era una doccia gelida: «Ah, tu dici di no anche al Papa! Bene bene, mettiti d’accordo col don Stanislao», indicandomi il suo segretario, mons. Stanislao Dziwisz, che gli stava di fianco. A lui, che si era affrettato a dirmi di non preoccuparmi perché l’espressione del Papa era divertita, spiegai che nel pomeriggio dovevo andare a Milano in aereo per un grosso impegno di animazione missionaria la sera stessa. Quel «stasera non posso» mi era letteralmente scappato… Mons. Stanislao mi disse, con la premessa che non dovevo parlarne ancora nessuno, che il Papa stava pensando ad un prossimo viaggio in Thailandia. «Ma se cinque minuti fa non sapeva nemmeno chi ero…». «Non è la prima volta che il Papa sceglie così. Va’ pure a Milano e appena puoi telefonami». Due giorni dopo ci accordammo per una cena il 28 febbraio. A tavola, dopo il passaggio per una non breve preghiera silenziosa nella cappella privata, avevo il Papa di fronte, mons. Stanislao a sinistra e a destra l’allora cardinale segretario di Stato Angelo Sodano.

Mentre si iniziava con un brodino, il Papa non perse tempo: «Su, dimmi di te e di che cosa fai in Thailandia». Cominciai un po’in generale, ma dopo poco il Papa chiese: «In dodici anni quanti adulti hai battezzato?». Nella pausa in cui stavo cercando di ricordare il numero esatto, il Papa intervenne: «Via, un pressappoco». «Sei o sette, santità», fu la mia risposta. «E gli zeri?», incalzò. «No, santità, non ci sono zeri». «Ma cosa sei là a fare?», fu la logica, tremenda domanda. Toccato sul vivo risposi: «Se vuole glielo spiego». «Sono qui in ascolto», concluse.

Devo aver parlato di seguito almeno mezz’ora, incalzato da alcune domande puntuali del Papa su alcuni dettagli che mi fecero capire come il Papa non fosse per niente a digiuno sull’argomento. Intanto lui e gli altri due illustrissimi commensali erano passati a un modesto secondo e alla frutta. «Ma tu sei lì ancora col brodo, che chissà com’è freddo…», osservò il Papa. «O parlo o mangio», fu la mia giustificazione istintiva accolta da una risata generale, mentre mi affrettavo ad aggiungere: «Scusi, ho dimenticato che sto parlando col Papa». Mentre lui continuava a sorridere, intervenne il cardinale Sodano appoggiandomi fortemente una mano sul braccio: «Ma è così che si parla al Papa, non come chi sta lì impietrito e dice solo sì o no!». E il Papa: «Beh, senti, io ti ho chiamato per parlare: mangerai un’altra volta!»

Continuai descrivendo la mia vita tra gente praticamente inconvertibile secondo i parametri ufficiali, perché il loro buddhismo è tutt’uno con cultura, tradizione, feste, stile ordinario di vita. Che uno dica «io non sono più buddhista» suona come dicesse «non sono più thai, ho rinnegato tutto il bene che ho ricevuto da sempre». Eppure ci affidano i loro figli nelle nostre scuole, nei nostri collegi dove la visione cristiana della vita e del valore dell’uomo sono la base esplicita dell’educazione che impartiamo. Ci invitano ai posti d’onore negli avvenimenti civili importanti, ci consultano per programmi di utilità pubblica. Il prefetto della provincia, presiedendo una festa nella nostra scuola, giunse a dire nel discorso ufficiale che la nostra presenza ha cambiato la storia della città. Più di una volta mi sono sentito dire in tono di massima stima: «Ti sentiamo come uno di noi. Peccato che non sei buddhista!».

Un augusto sospiro, tra il divertito e il preoccupato, mi fece proseguire: «Che ne dice, santità, devo continuare tra questa gente con così poche conversioni o devo andare altrove?». «No, no!», intervenne il Papa con voce forte e decisa. «Continua così e fa che anche altri vengano ad aiutarti a fare come te. È un lavoro importante, necessario per la Chiesa». Vi lascio immaginare l’ondata di consolazione riversata in me da quelle parole.

Si passò ad altri argomenti, con domande del tutto impreviste. Ad un certo punto ci fu una più che giusta precisazione del cardinale Sodano: «Naturalmente certe cose dovranno rimanere fra te e il Papa». Incluso il fatto che il Papa nella visita alla Thailandia voleva sorprendere tutti con l’uso di un po’ della lingua thai. «Almeno qualche espressione di saluto, qualche parte della Messa», precisò.

Il Papa per la prima volta si trovava di fronte ad una lingua tonale, una barriera inespugnabile in breve tempo, gli avevano detto. Voleva delle spiegazioni non da un nativo, ma da uno che l’avesse affrontata dal di fuori, come si trovava a fare ora lui stesso. Cominciai a dirgli dei cinque toni, delle vocali lunghe e brevi, delle gutturali: lievi differenze a volte quasi impercettibili per il nostro orecchio di stranieri, ma che cambiano del tutto il significato. Prendiamo ad esempio il momento più solenne, alla consacrazione del pane: la parola «corpo» in thai suona kaai, ma una piccola flessione di voce e accorciamento della vocale la cambia in kai, che significa «gallina» oppure in khai, che significa «uovo». «Ahi, ahi!», esclamò il Papa tra il divertito e il deluso.

Si decide di lasciar perdere la lingua thai per le parti della Messa. «Ma almeno qualche espressione di saluto, di augurio, di benedizione – insiste il Papa – cominciando dal “Sia lodato Gesù Cristo”». Mi fermo pensieroso per trovare come dirglielo. Mi faccio coraggio e dico: «Nella lingua thai non si usa». «Come? Non dite nemmeno “Sia lodato Gesù Cristo”?». I miei tentativi di spiegazione che nella lingua thai, quando ci si rivolge a Dio, a Gesù si deve usare un linguaggio aulico, come quello che si usa per il re, che allunga e complica la frase (ragion per cui una traduzione ufficiale del “Sia lodato Gesù Cristo” non è ancora stata fatta…) non convincono il Papa più di tanto: «In un modo o nell’altro cerca come farmi dire il “Sia lodato Gesù Cristo” in thai». L’ora era tarda e il Papa concluse: «Ti do tempo qualche giorno: quando hai tutto pronto fatti vivo». Quel «tutto pronto» si riferiva anche ad altri compiti che in quella sera mi erano stati affidati.

Lavorai intensamente parecchi giorni e presentai il «tutto pronto», incluso otto frasi in lingua thai con traslitterazione in alfabeto italiano e segni convenzionali vari per indicare la pronuncia, inclusa cassetta registrata a viva voce. Nelle settimane che seguirono fui raggiunto da diverse telefonate, per chiarimenti, precisazioni, prove di audizione… non vi dico… Finalmente, martedì 17 aprile, ultimo incontro col Papa: stavolta a pranzo per avere a disposizione il pomeriggio, presenti anche due organizzatori tecnici del viaggio ormai largamente pubblicizzato. Ci fu il tempo anche per la prova generale di dizione. «Attento, Santo Padre – fu una delle mie ultime raccomandazioni – a quella frase “il Papa ama la Thailandia”: c’è il rischio che invece di Muang thai (cioè Thailandia) sfugga Man taai (che significa «patata morta»).

Qualche giorno dopo ero di ritorno in Thailandia e quel 13 maggio 1984 ero là anch’io allo Stadio Nazionale di Bangkok con le decine di migliaia venuti da tutto il Paese ad accogliere il Papa. I giornali locali avevano ribadito l’improbabilità che il Papa potesse dire qualche parola in thai. Dal grande stupendo palco al centro dello stadio, la prima espressione del Papa in thai equivalente al «Sia lodato Gesù Cristo» prese tutti di sorpresa e naturalmente non ci fu la risposta «sempre sia lodato». Il Papa incalzò subito con «Il Papa ama la Thailandia». Ma, ahimè, suonò più come «patata morta»… Il cardinale thai di Bangkok, che gli era a fianco sorpreso, toccò lievemente il braccio del Papa che in un baleno, prima ancora che la massa se ne rendesse conto, si corresse in perfetto tono «Il Papa ama la Thailandia». E lo stadio quasi crollò dalle grida e salti gioiosi della folla incredula d’averlo inattesamente sentito nella loro lingua, inclusi gli ignari e sorpresi dignitari sul palco. Nel discorso del Papa in inglese, con traduzione a tratti, vennero una alla volta a tempo giusto le altre frasi thai, accolta ognuna da un lungo scrosciare d’applausi.

Al termine della Messa, il Papa scese dal palco per benedire una ventina di campane per varie chiese. Io ero dietro una di queste per la mia chiesa di Phrae, in lunga attesa da oltre un’ora prima che il corteo papale giungesse allo stadio. Quando il Papa mi giunse davanti, disse semplicemente: «Ah, sei qui?». Il cardinale di Bangkok che lo accompagnava ebbe un sussulto ed esclamò in italiano: «Adesso capisco tutto…». E mentre procedevano a deporre i paramenti fu il Papa stesso a raccontargli i dettagli di quella sorpresa linguistica.

Quei due intensissimi giorni che il Papa passò in terra thai furono un evento stupendo e provvidenziale per la Chiesa, estrema minoranza (tre per mille) in questo Paese. Al di là delle otto frasi nella loro lingua che ripeté qua e là negli altri discorsi di quei giorni, la sua personalità ha fatto storia.

Ricordo un fatto capitatomi alcuni mesi dopo la visita del Papa. Ripassando in un villaggio buddhista fuori mano, dove tempo prima avevo tentato invano di spiegare chi ero io prete cattolico, mi sento dire: «Adesso abbiamo capito. Tu sei della compagnia quel Grande Santone Bianco che abbiamo visto in televisione. L’ha ricevuto anche il re, ha baciato la nostra terra e ha parlato la nostra lingua. Quello vuol bene a tutti noi thai!».

Le tue quarantott’ore nella «terra del sorriso», caro Padre Santo Giovanni Paolo II, hanno proclamato più della nostra presenza di tanti anni. Grazie.