A sedici anni lasciò l’Albania in cerca di un futuro in Italia, oggi guida l’arcidiocesi della capitale: «Furono i nonni a trasmettermi il seme della fede sotto il comunismo», racconta monsignor Arjan Dodaj, pastore di una chiesa che sta rinascendo
Monsignor Arjan Dodaj ricorda ancora distintamente quella notte calda di settembre del 1993 in cui, accucciato in un motoscafo colmo di migranti, guardava il cielo stellato sopra l’Adriatico e sentiva che la sua vita stava cambiando per sempre. «Avevo solo sedici anni, ma percepivo chiaramente quello strappo che si stava consumando, dalla mia infanzia nell’Albania che viveva gli ultimi sussulti del regime comunista a un futuro ignoto in Italia, col miraggio di un lavoro per aiutare i miei rimasti in patria». Monsignor Dodaj, nato nel 1977 a Laç, ne ha fatta di strada da quella notte: lo scorso novembre Papa Francesco l’ha nominato arcivescovo metropolita di Tirana-Durazzo, arcidiocesi di cui era già ausiliare da un anno. Alla sua terra – e alla sua Chiesa che da ragazzo aveva potuto solo conoscere indirettamente attraverso la testimonianza silenziosa dei nonni – aveva fatto ritorno nel 2017, dopo un lungo percorso che, in Italia, l’aveva portato a riscoprire la fede fino a scegliere di diventare sacerdote. «Ora sono al servizio di una comunità giovane e umanamente piena di risorse, nonostante le macerie lasciate da decenni di comunismo», racconta il presule.
Anche delle prospettive di questa Chiesa, segnata dal martirio negli anni bui della dittatura instaurata da Enver Hoxha nel 1944, si parlerà nel corso di “Mediterraneo, frontiera di pace”, il secondo incontro dei vescovi provenienti dai Paesi affacciati sul Mare di Mezzo, che si terrà a Firenze dal 23 al 27 febbraio e a cui interverrà Papa Francesco.
Monsignor Dodaj, che cosa ricorda della sua infanzia in un Paese che sanciva l’ateismo di Stato nella Costituzione?
«Tutti vivevamo questa dimensione di oppressione e privazione della libertà di pensiero: non si poteva osare obiettare all’ideologia dominante! Noi bambini a scuola venivamo sottoposti a domande trabocchetto per individuare le famiglie non allineate. I miei genitori subivano gli effetti di questo clima: conoscevano bene gli episodi di religiosi o catechisti torturati e uccisi e poi, come tutta la loro generazione, non avevano vissuto l’esperienza della fede. I miei nonni, invece, avevano sviluppato delle modalità per non spezzare il legame con la loro spiritualità, anche sotto la dittatura».
Per esempio?
«Mia nonna passava ogni sera mezz’ora affacciata alla finestra guardando la stalla di fronte a casa, con in mano una catenina di noccioli di ulivo. Solo anni più tardi compresi che si trattava di una corona del rosario senza segni religiosi e che al posto della stalla, prima del comunismo, c’era la chiesa del paese. Anche il nonno recitava il rosario, quando era a letto: una notte lo ospitammo a dormire e io notai qualcosa di luccicante nelle sue mani… era una di quelle coroncine di plastica fosforescente che si usavano negli anni Ottanta. Ricordo poi che la nonna sbrigava le faccende domestiche cantando: io pensavo che si trattasse di ritornelli tradizionali e invece, quando venni in Italia, riconobbi le parole di alcune preghiere: lei conservava così la dottrina che aveva imparato a memoria da ragazza. In quel modo mi aveva insegnato l’Ave Maria. I nostri anziani ci hanno trasmesso, in modo per noi inconscio, un senso profondo delle cose di Dio».
Lei era adolescente quando il sistema cominciò a vacillare…
«Enver Hoxha era morto nel 1985 e l’8 dicembre 1990 ci furono le prime proteste degli studenti contro il sistema. Ma c’erano già stati segnali di un cambiamento. Sui monti sopra Laç sorgevano le rovine di un santuario dedicato a sant’Antonio che il regime aveva fatto abbattere: il 12 giugno del ’90, vigilia della festa del santo, la montagna fu presa d’assalto da migliaia di pellegrini e nessuno li fermò. Ci furono le prime scarcerazioni di prigionieri politici, tra cui alcuni sacerdoti, e il 4 novembre fu celebrata la prima Messa pubblica al cimitero di Scutari, dove tanti religiosi erano stati assassinati e poi buttati nel fiume. Alla celebrazione parteciparono cristiani e musulmani, così come successe pochi giorni dopo per la riapertura della moschea della città. Eravamo tutti uniti in questa sete di libertà religiosa».
Però non c’era lavoro e la povertà mordeva, così lei salì su un barcone per l’Italia. E qui riscoprì anche la fede: come successe?
«Mi ero stabilito presso Cuneo e facevo il saldatore. Lavoravo dieci ore al giorno e non avevo tempo per gli svaghi, però conobbi un gruppo di giovani che facevano riferimento alla comunità Casa di Maria, che mi fecero sperimentare un’amicizia sincera e gratuita e mi aiutarono ad approfondire la dimensione spirituale. Scoprii l’esistenza di un Dio che si poteva incontrare e nel ’94 ricevetti i sacramenti. E poi, gradualmente, sentii questo desiderio di una donazione totale al Signore: nel ’97 entrai nella Fraternità dei Figli della Croce, a Roma, e nel 2003 Giovanni Paolo II mi ordinò sacerdote. In questi anni ho svolto diversi servizi: parroco, cappellano della comunità albanese a Roma, ho operato nella borgata del Trullo finché, nel 2017, sono tornato come fidei donum in Albania su richiesta dell’arcivescovo di Tirana-Durazzo».
Come ha trovato la Chiesa albanese?
«È una Chiesa che era stata annichilita dal comunismo: l’ideale del partito era la costruzione dell’“uomo nuovo”, senza Dio. La dittatura ci aveva rubato la coscienza, e nonostante l’opera colossale dei missionari resta un notevole bisogno di formazione. Eppure nelle generazioni nate dopo il ’90 c’è un grande desiderio di Dio, i giovani hanno uno spirito libero, forte, intraprendente. Alle celebrazioni domenicali loro rappresentano l’80% dei fedeli. E la Chiesa cresce. Ogni anno, nella notte di Pasqua, nella cattedrale di Tirana vengono impartiti 60/70 battesimi di adulti provenienti da famiglie non cristiane».
Come condiziona l’identità dei cattolici il fatto di essere eredi di martiri?
«Ci sentiamo debitori di questi testimoni, che hanno tenuta viva la memoria della nostra storia. Noi siamo una Chiesa apostolica: il primo vescovo di Durazzo, san Cesare, era uno dei 72 primi discepoli di Gesù e lo stesso san Paolo predicò in Albania. Abbiamo la responsabilità di rievangelizzare la nostra terra».
Oggi, dopo un anno come ausiliare, lei guida l’arcidiocesi, oltre a essere segretario aggiunto della Conferenza episcopale. In che ambiti è impegnata la Chiesa?
«Abbiamo un carisma di immedesimazione trasversale, non siamo una realtà chiusa ma ci coinvolgiamo in tutti i settori della società, siamo lievito… Solo per fare un esempio, l’unica università cattolica dei Balcani si trova a Tirana e questo rappresenta una grande spinta culturale. Naturalmente siamo in prima linea nell’assistenza ai bisognosi. Oggi il Paese soffre per le conseguenze della pandemia ma anche per quelle del terremoto del 2019. Attraverso la Caritas, abbiamo aiutato tantissime famiglie, di ogni religione. Operiamo anche nella formazione attraverso diverse scuole, dalle materne ai licei, non solo nel Nord del Paese, dove vive la maggior parte dei cattolici, ma anche al Centro e al Sud, che vede una prevalenza di ortodossi. E poi siamo attivi nella sanità. Tra pochi mesi, grazie all’impegno dei padri concezionisti, inaugureremo un ospedale a Tirana, uno dei grandi desideri di madre Teresa. In tutti questi contesti portiamo il messaggio del Vangelo».
A Firenze si parlerà di cittadinanza: la Chiesa in Albania ha anche una rilevanza civile?
«Certo, e non solo per la presenza di politici cattolici nelle istituzioni ma anche per i compiti sociali che lo Stato affida alla Chiesa. Pensiamo solo all’impegno coordinato dalla Caritas per affrontare il dramma dei migranti lungo la rotta balcanica: abbiamo diversi centri dove accogliamo siriani, iracheni, oggi gli afghani… e non sono pochi quelli che scelgono di stabilirsi qui».
L’Albania è nota per la convivenza tra fedi diverse: temete gli influssi di un islam più intransigente, provenienti in particolare dalla Turchia?
«I musulmani albanesi non hanno nulla a che vedere con l’islam di altri contesti, per noi sono fratelli che vogliono portare avanti la dimensione dell’incontro con Dio nella pace e nella misericordia, dopo le comuni sofferenze della dittatura. Con i sunniti e con i sufi bektashi, così come con gli ortodossi e i protestanti, ci incontriamo regolarmente sia in modo formale che nell’amicizia spontanea. Il nostro è un modello che ha ispirato anche Papa Francesco, venuto in visita nel 2014, e il documento di Abu Dhabi sulla fratellanza umana».
Lei, che salì su un barcone in cerca di una vita migliore, cosa pensa di come l’Europa sta affrontando la questione migratoria?
«Certi episodi drammatici di cui purtroppo siamo testimoni non possono farci dimenticare gli sforzi di quei Paesi, tra cui l’Italia, che non hanno mai smesso di accogliere. Papa Francesco ci ricorda che esiste sia il diritto a costruirsi un futuro nel proprio Paese sia quello a lasciarlo, se lì la vita è insostenibile. I leader europei sono chiamati a mobilitarsi per garantire il rispetto di questi diritti, secondo i valori di giustizia, solidarietà e tutela della propria identità». MM
Mediterraneo, i vescovi a Firenze
Si tiene a Firenze, dal 23 al 27 febbraio 2022, la seconda edizione di “Mediterraneo, frontiera di pace”, che riunisce i vescovi dei Paesi affacciati sul Mare di Mezzo. Al centro dell’evento, promosso dalla Cei come quello del 2020 a Bari e ispirato alle intuizioni di Giorgio La Pira, ci sarà il tema della cittadinanza: un forum parallelo coinvolgerà i sindaci dell’area mediterranea. Un doppio appuntamento che si concluderà con la visita di Papa Francesco domenica 27. In Albania i cattolici rappresentano il 10% della popolazione. Una Chiesa testimone: nel 2016 il Papa ha proclamato beati 38 martiri del comunismo.