«Lavate i vostri morti» raccomanda la poesia. Da qui si riparte, in questi giorni di primavera. Perché chi sa impreziosire la morte, sa anche impreziosire la vita
Penso alle persone che il coronavirus ci ha portato via. Nonni, nonne, papà, mamme, fratelli e sorelle… Sacerdoti. In così breve tempo. Immagino i loro ultimi istanti di vita, invocando un aiuto o solo la vicinanza di persone care che le precauzioni e la paura del contagio hanno tenuto lontane. Poi la sepoltura, di fretta, senza la consolazione dell’Eucarestia e la dovuta calma, necessaria al commiato. Si dovrà prima o poi affrontare il tema del morire in questo modo, nei giorni del coronavirus. Lo si dovrà fare con parole adatte. Che sappiano aprire il cuore e bucare il Cielo. Senza dare colpe ad altri o vivere di risentimenti. Senza fare campagna elettorale sui cadaveri dei nostri cari. L’impossibilità di accompagnarli rispondeva a obiettive ragioni di sicurezza. E nondimeno si ripropone la questione del nostro rapporto con gli ultimi istanti della vita e la necessità di esserci, piccoli e grandi, maggiorenni e minorenni.
«Lavate i vostri morti» (1) raccomanda la poesia. Dopo le immagini dei militari che a Bergamo prelevavano le salme di tanti nostri cari per l’ultimo viaggio, questo verso poetico rimarrà come monito per il futuro. Sembra un invito a dare tempo al congedo come se avessimo ancora delle cose da dirci. Come se quel corpo morto volesse consegnarci ancora un ultima parola. Sembra un invito a stargli accanto. Senza delegare quest’ultimo gesto di pietà, tanto civile, quanto gravido di un anelito eterno che dobbiamo saper sussurrare. Negli anni, abbiamo delegato troppi gesti importanti ad altri, togliendoci di scena troppo presto. Anche qui però ci vorrà un saggio intervento della legge per tutelare da spese folli un gesto, quello della sepoltura, sul quale si misura il valore di una civiltà.
In questi giorni la morte è dovunque. Nell’aggiornamento dei numeri, nella distanza forzata tra di noi, nelle strade deserte, nella paura del contagio. Nelle aspre polemiche tra istituzioni, autorità, partiti politici, tutti a caccia di colpe e colpevoli, incuranti della necessità di fare lutto attorno ai nostri cari che se ne sono andati con tutta la loro storia, di fatica e di amore, che non avremo più. Ne sentiamo già la mancanza, da impazzire.
Da una simile pandemia se ne esce diversi solo se si da il giusto spazio a tutte le morti che ha causato. Non come fossero numeri per le statistiche, ma come se ciascuno di quei corpi fosse «una mappa / di terra d’oltre mare». Non mi sarei spinto in acque così profonde se non per la speranza nella resurrezione di Gesù, per quel silente, ammutolito congedo di tanti nostri cari e per questi versi gravidi di M. Gualtieri.
«Lavate i vostri morti. Non perdete / quel giorno del tesoro quando tutto / il caro corpo loro è una mappa / di terra d’oltremare. Piano piano / lavate gli irrigiditi morti, / con le mani toccate quel deserto, / il guscio inabitato freddo e vuoto». «Sentiteli diffusi – spalancati – vivi più – di quando furon vivi – liberati».
Quello che mi affascina di questi versi fino a perdere i sensi nella fatica di spingerli oltre le superfici dei corpi, è la penetrazione dello sguardo che sa intuire vita dove c’è solo morte. Futuro dove c’è solo passato. Presenza dove c’è solo assenza. Palpito dove c’è solo «un guscio inabitato freddo e vuoto». Come lo sguardo di Giuseppe d’Arimatea, quando andò «da Pilato per chiedere il corpo di Gesù» (Mc 15,43).
Da qui si riparte, in questi giorni di primavera. Perché chi sa impreziosire la morte, sa anche impreziosire la vita. Chi dà dignità all’una, ne avrà anche per l’altra. Chi non sciupa la fine, non sciupa nemmeno l’inizio. «Lavate i vostri morti. Non perdete quel giorno…». In Cambogia, questo lavacro finale spetta solo ai figli. Sono sempre loro gli ultimi a toccare le spoglie mortali della mamma e del papà.
L’attenzione alla morte, in tutte le sue movenze, anche interiori, può farci più attenti alla vita. Sono aspetti che stanno o cadono insieme. Se si affretta la morte, si finisce con l’appesantire anche il passo della vita. Se non si è presenti all’una si finisce per essere assenti anche nell’altra!
Che la morte di chicchessia abbia valore. Che abbia compagnia. La pietà di un grazie e di una degna sepoltura. Con ordine, come nell’auspicio di un altro poeta, che vorrebbe «uscire dalla vita come quando /s’esce di chiesa / in un finale d’organo», con uno sguardo ai suoi ultimi passi. «Ch’io possa almeno / lasciarmi dietro la mia stanza, un poco / volgendo il capo a riguardarla, alfine / pulita, sgombra / d’ogni discordia, in ordine sereno…». Per il salto finale … «s’avventa / l’anima a scale prodigiose, trova / il piede sulla soglia / un bianco che vi palpita…» (2). Là, solo là, «lavati», i nostri morti avranno tutto quello che noi qui abbiamo lesinato. Per loro e con loro aspettiamo la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà. Buona Pasqua!
1. M. Gualtieri, Le giovani parole, Torino 2015, 48.
2. A. Barile, Poesie (1930-1963), Milano 1965, 137.