“L’Europa ha esportato 77 milioni di dosi di vaccini anti-Covid, più di quelle utilizzate entro i propri confini per la propria campagna vaccinale” è stato detto qualche giorno fa. Incrociando questi dati con gli altri disponibili, però, si intuisce che Bruxelles ha conteggiato tra le proprie esportazioni anche dosi di AstraZeneca fabbricate in India e in Corea del Sud e inviate nei Paesi a basso reddito attraverso il programma Covax. Quanti sono davvero i vaccini che dall’Europa hanno preso la strada del Sud del mondo?
Nella guerra commerciale (e non solo) che da giorni impazza intorno ai vaccini per il Covid-19 siamo bombardati di numeri e notizie. Eppure altrettanto importanti sono le narrative e il modo in cui i dati vengono proposti. Anche per questo, qualche giorno fa, sono rimasto un po’ sorpreso quando nei lanci di agenzia sulla conferenza stampa della presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen – nel pieno dello scontro sulle mancate consegne di AstraZeneca – ho visto citare un dato secondo cui da dicembre a oggi l’Europa avrebbe esportato più dosi di vaccino rispetto a quelle messe a disposizione dei suoi Paesi.
Così sono andato a cercarmi le slide della conferenza stampa e ho trovato quella qui sopra – twittata dalla stessa Von der Leyen – secondo cui al 25 marzo ammonterebbero a 77 milioni di dosi i vaccini contro il Covid-19 esportati dall’Europa in tutto il mondo, a fronte dei circa 72 milioni di vaccini a quel momento disponibili per i suoi Paesi. La cosa mi ha sorpreso parecchio: il giorno prima, infatti, la stessa Commissione europea in un comunicato ufficiale aveva parlato di 43 milioni di dosi esportate in 33 Paesi. Una cifra ragguardevole, certo. Ma com’è possibile che in appena 24 ore le dosi siano quasi raddoppiate?
A leggerla con un po’ più di attenzione la spiegazione è nella slide stessa: al conto sono state aggiunte le 31 milioni di dosi distribuite nel mondo dal programma Covax, l’iniziativa multilaterale a cui l’Unione europea partecipa attivamente, che ha come obiettivo rifornire di vaccini contro il Covid-19 quei Paesi a basso reddito che non sarebbero in grado di acquistarli. Solo che c’è un piccolo dettaglio: ben poche di quelle 31 milioni di dosi di vaccino sono state prodotte in Europa. Basta andare sul sito del Covax per leggere che 28 milioni sono vaccini di AstraZeneca acquistati principalmente da due fornitori asiatici: il Serum Institute di Pune in India e la società coreana Sk Bioscience. Il primo – in particolare – è il fornitore più importante: il sito del ministero degli Esteri indiano indica lotto per lotto le “sue” esportazioni con specifiche su quantitativi, data di invio e destinazioni. Così si scopre che in quegli stessi 31 milioni di vaccini ce ne sono almeno 17,8 milioni che gli indiani considerano propri. Ed essendo stati prodotti da un’azienda indiana forse un po’ più di ragione ce l’hanno.
La domanda, allora, è: in che senso le 77 milioni di dosi sarebbero “esportazioni dell’Unione europea”? La slide è volutamente ambigua. Dice che l’Europa ha esportato in 33 Paesi (prima tra tutti la Gran Bretagna), poi però dice che il Covax ne ha raggiunti 54. E se si osserva con attenzione la mappa si vede che sono ben pochi i Paesi in cui i due gruppi si sovrappongono. Da nessuna parte si sostiene che le dosi consegnate con il programma Covax siano state prodotte in Europa (infatti non è così): la slide spiega correttamente che l’Europa è il “principale donatore” del Covax (ci mette i soldi). Ma l’impressione trasmessa dall’immagine e dal dato sulle 77 milioni di dosi è un’altra: una grande quantità di vaccini è uscita dall’Europa per andare in tutto il mondo mentre a noi le dosi non le danno. Anzi: ne abbiamo addirittura meno di quelle che abbiamo esportato.
Mi chiedo allora: se le esportazioni vere dell’Europa ai 33 Paesi (principalmente dosi Pfizer/Biontec) e le dosi acquistate dal Covax (principalmente AstraZeneca prodotte in Asia) fossero state presentate in due slide diverse, l’impatto dei dati non sarebbe stato profondamente diverso? Avremmo ancora potuto dire che l’Europa ha avuto a disposizione meno dosi rispetto a quelle che ha dato agli altri Paesi? E non sarebbe utile – a questo punto – avere qualche informazione un po’ più circostanziata dall’Unione europea sulle esportazioni di vaccini anti-Covid?
Ok, ma se noi europei paghiamo, perché non dovremmo considerare le dosi Covax come esportazioni nostre? Intanto siamo davvero il “principale donatore”? Effettivamente tra Unione europea e contributi dei singoli Stati il Vecchio Continente ha stanziato circa un terzo dei 6,3 miliardi di dollari che attualmente formano il capitale del fondo (vedi nel dettaglio questa tabella pubblicata sul sito dell’iniziativa). Un terzo, però, non è la totalità. Non si capisce, quindi, sulla base di che cosa tutte le dosi di vaccino consegnate finora da Covax in 54 Paesi a basso reddito – indipendentemente da dove siano state prodotte – dovrebbero essere conteggiate tra le “esportazioni dell’Unione europea”.
A qualcuno potrà sembrare una questione di lana caprina, ma non lo è. In gioco c’è il futuro del programma Covax che esattamente quanto noi oggi conta soprattutto sui rifornimenti di AstraZeneca (più facili da gestire in Paesi dove è problematico garantire certe catene del freddo) e dunque rischia una profonda crisi. Anche su questo contratto, infatti, ci sono oggi gravi problemi di forniture dovute essenzialmente a stime produttive troppo ottimiste inserite nei contratti: entro fine maggio avrebbero dovuto essere 237 milioni le dosi consegnate a Covax, a oggi siamo a 32. E, come spiega AsiaNews, adesso anche l’India da una decina di giorni ha imposto una brusca frenata alle esportazioni dei vaccini prodotti a Pune. Si tratta di un contraccolpo della nuova ondata pandemica approdata pesantemente anche a Mumbai, come in molte altre zone dell’Asia meridionale e del Sud-est asiatico; New Delhi adotta la stessa linea dell’Europa: basta esportazioni finché non decolla il nostro piano vaccinale. Ma se si chiude anche il rubinetto indiano è molto facile capire quali saranno i Paesi che pagheranno il prezzo più alto nella guerra sui vaccini. Già oggi, del resto, in molte aree del mondo il Covax si sta rivelando una falsa speranza: dall’Asia all’America Latina ci si affida più che altro ai vaccini cinesi e al russo Sputnik V, tuttora peraltro disponibile in quantità molto inferiori rispetto alla valanga di parole che lo circondano.
Alla fine è sempre una questione di equità. Certamente la responsabilità maggiore dello squilibrio in questo momento è dei Paesi che marciano a ritmo spedito a spese di tutti gli altri: la Gran Bretagna, che pur essendo tra i finanziatori del Covax non mette a disposizione alcuna dose dei propri vaccini; gli Stati Uniti di Biden, che raddoppiano il proprio obiettivo di immunizzazioni ma per arrivarci mantengono in vigore il Defence Production Act, una legge da tempo di guerra che blocca l’esportazione di tutti i materiali necessari per produrre dosi, mettendo così in difficoltà i produttori extra-Usa. Ma sulla narrazione Stati Uniti e Gran Bretagna vincono, perché nelle nostre narrazioni continuiamo a indicarli come il modello che anche noi vorremmo seguire. Ci aggrappiamo ai numeri dei contratti firmati dall’Europa con AstraZeneca, ma senza spiegare che quei contratti si basavano sul presupposto che il resto del mondo per il vaccino contro il Covid-19 poteva aspettare,
Anche l’Europa, oggi, deve scegliere da che parte stare. E il gioco delle tre carte non è decisamente la strada migliore per invocare giustizia.