«Il Coronovarius nella mia parrocchia filippina»

Dalla diocesi di Imus la testimonianza di padre Giuseppe Carrara, missionario del Pime: «Quante grazie abbiamo sperimentato anche dentro questa tragedia»
Padre Giuseppe Carrara, missionario del Pime di origini bergamasche, svolge il suo ministero nella parrocchia di Santa Teresina del Bambin Gesù, a General Mariano Alvarez, una cittadina della diocesi di Imus che si trova nella provincia di Cavite, a sud di Manila. Ci ha inviato questa testimonianza sulla sua esperienza con il Coronavirus in questa estrema periferia delle Filippine. All’inizio, mi ero sentito a disagio considerato che la tragedia è stata molto più grande in Italia e in Europa che nelle Filippine guardando i dati ufficiali dei contagiati e dei morti (qui nessuno conosce i dati reali perché il numero dei tamponi è ridicolo rispetto alla popolazione), senza dimenticare che non è ancora finita né lì né qua. In realtà, nelle Filippine, la tragedia più grande non è stata l’emergenza sanitaria, ma quella sociale. Milioni di Filippini si sono trovati senza lavoro e, quindi, senza entrate. Infatti, la maggioranza non ha stipendi garantiti, ma guadagna solo se lavora. E non mi riferisco solo a chi lavora in proprio, ma anche a milioni di dipendenti i cui contratti prevedono lo stipendio solo per i giorni di lavoro effettivo. Tenete anche presente che qui non esiste la cassa integrazione e l’idea dei risparmi per tempi di emergenza vale per pochissimi. Non conosco stime precise, ma direi che solo il 10% della popolazione può sopravvivere alcuni mesi senza un’entrata regolare. Il che significa che circa 90 milioni di Filippini sono andati in crisi. Il secondo aspetto della sofferenza, come sapete bene anche voi, e’ quello della libertà perduta. Io questo l’ho vissuto solo parzialmente perché come prete, nonostante tante limitazioni, posso muovervi abbastanza, per cui è difficile che rimanga tre giorni di fila in casa. Al contrario, dai 60 anni in su e sotto i 21, i filippini non possono uscire di casa, tranne che per emergenze. E anche tra gli altri, solo chi ha il pass può uscire (solitamente, uno per famiglia). Naturalmente, per capire il significato di questa limitazione, bisogna tenere presente che le case di milioni di filippini sono baracche. Quelle di altri milioni non sono baracche, ma non sono fatte per starci se non per dormire e mangiare. Quando fuori ci sono 35 gradi, dentro ce ne sono 40, 45 o 50. Potete immaginare il piacere… Tuttavia, dentro questa tragedia, non sono mancate le grazie. Infatti, oltre al governo che ha cercato di aiutare le famiglie più bisognose, ci sono stati tanti altri che si sono pure dati da fare per aiutare. In altre parole, c’è stata davvero una corsa di solidarietà, di cui ha giovato anche la mia comunità. La Caritas di Manila, la nostra diocesi, le nostre comunità di base e alcuni benefattori dall’estero (oltre sicuramente a tanti altri di cui non sono a conoscenza) hanno contribuito a superare dignitosamente la fase più acuta della crisi. Ora sono riprese tante attività lavorative, con il conseguente sollievo dal punto di vista economico.
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