Oggi si è registrata la prima morte da Coronavirus a San Paolo. Se da un lato cresce la paura, dall’altro non si stanno minimamente modificando le abitudini. E più ci si allontana dal centro più si percepisce che combattere questa battaglia, qui, sarà difficilissimo
Il Brasile sta reagendo all’emergenza coronavirus come reagisce a tutte le emergenze che si affacciano sulla quotidianità delle persone: di pancia. Solo che questa volta l’emotività di un popolo caldo e appassionato, non basta per sconfiggere questo nemico nuovo e silenzioso, anzi, rischia di ampliarne gli effetti. La lotta richiede ordine, strategia, fermezza. E al momento l’approccio appare tutt’altro molto disordinato, ancora confuso, nonostante il Paese possa beneficiare di un “vantaggio temporale” non da poco, potendo osservare come altre Nazioni si sono organizzate per cercare di combattere questa guerra.
DATI E NOTIZIE. I dati cambiano ogni giorno, ma solo in pochi li leggono. Ci sono poi quelli che non li sanno leggere, che non sanno discernere tra notizie vere e false. E così i telefonini si stanno già riempiendo di fake news, di falsi allarmi, di panico. Il numero totale dei pazienti che hanno ufficialmente contratto il virus è quasi “ridicolo” in proporzione alla popolazione. San Paolo, la città più ricca e più grande (non solo del Brasile ma di tutto il continente Sudamericano), con i suoi oltre 20 milioni di abitanti (considerando l’area metropolitana), oggi ha avuto la sua prima vittima e attualmente conta circa 150 casi. Qualcuno dice che sia impossibile dato che siamo in una città di continui scambi, commerciali, lavorativi e turistici, con tutte le più importanti capitali mondiali, comprese quelle cinesi ed europee, dove i focolai sono accesi da tempo.
EMERGENZA NELL’EMERGENZA. C’è un dato che però dovrebbe spaventare più di tutti ed è quello che riguarda i posti letto nelle terapie intensive degli ospedali pubblici. La media, ogni 10mila abitanti, rasenta lo 0,5. Significa che nelle strutture statali non esistono letti nei reparti che sembrerebbero i più attrezzati per affrontare la lunga battaglia contro il coronavirus. Le stesse strutture statali sono già oltremodo affollate: «Da sempre ci sono pazienti in corridoio, da sempre ci sono reparti in cui non ci sono posti letto a sufficienza, da sempre ci sono code di giorni o settimane per un semplice esame. È per questo che non bisogna diffondere panico e allarmism»”, le parole di padre Lirio, parroco della parrocchia Nossa Senhora Aparecida di San Paolo (parrocchia fondata dal Pime 51 anni fa) e cappellano dell’Ospedale Pedreira, la struttura pubblica più grande della periferia Sud della città (che presto dovrebbe essere intitolata a padre Maurilio Maritano, missionario del Pime che ha dato la vita al fianco dei poveri paulistani, avviando le “lotte politiche” per la realizzazione dell’ospedale).
PAURA. Purtroppo, però, il panico si sta già diffondendo. Le scuole stanno per chiudere, alcuni Stati hanno già annunciato lo stato di allarme. Le imprese spingono per lo smart working e le diocesi sono pronte a sospendere gli incontri e le catechesi, spingendo i parroci a celebrare all’aria aperta. I telefonini delle persone si stanno riempiendo di notizie, spesso false, e così è cominciata la corsa nei posti di salute pubblici per semplici controlli; un semplice raffreddore fa venire mille dubbi e così i pronto soccorso si affollano in poche ore. La Prefettura di San Paolo ha creato e sta diffondendo un’app per una specie di “screening” della malattia, per cercare di spiegare alle folle di non andare in ospedale per un semplice raffreddore. Le farmacie hanno esaurito le scorte di alcool gel e di mascherine. In confronto però pare impossibile rinunciare ai baci e agli abbracci, segno particolare dell’affetto e della cultura brasiliana. Sembra impossibile rinunciare a feste, eventi di massa, preghiere di gruppo. Cioè, da un lato cresce la paura, dall’altro non si stanno minimamente modificando le abitudini, nonostante l’Italia o la Cina stiano insegnando al mondo che bisogna isolarsi, bisogna restringere i contatti.
DUE O PIU’ PAESI. Il problema è che in Brasile ci sono due o più “Brasili”. C’è quello ricco dei centri delle grandi città, c’è quello estremamente povero delle periferie urbane, c’è quello dimenticato dell’interior, c’è quello nascosto delle foreste, dell’Amazzonia. E più ci si allontana dal centro più si percepisce che combattere questa battaglia, qui, sarà difficilissimo: ci vorrà tempo, tanto tempo, e soprattutto pazienza. Domenica, in un panificio che si affaccia su una delle favela più grandi e più povere dell’area sud paulistana, il capo del personale mi ha domandato: «Tutto bene là in Italia? Perché sento che c’è qualcuno con una strana febbre». Ha detto proprio così, aggiungendo che è pronto a chiudere la padaria se dovesse servire, ma allo stesso tempo non ha ritirato la mano e gli abbracci con tutti i clienti che sono entrati in negozio.
LA POLITICA. Chi si aspetta un intervento “dall’alto” per il momento può e deve mettersi l’anima in pace. La “parabola” del presidente Bolsonaro la dice lunga su come l’emergenza si stia affrontando in maniera più che dilettantistica. Sospettato di aver contratto il virus, Bolsonaro ha fatto i test: quando il risultato è stato negativo, ha postato sul suo profilo ufficiale una foto che lo ritrae mentre fa il gesto dell’ombrello. Un’immagine di desolazione umana, di totale mancanza di rispetto per le migliaia di morti nel mondo e soprattutto di assoluta mancanza di percezione della realtà. Le prefetture delle grandi città si stanno organizzando ma con misure che, per ora, sembrano inefficaci, lente. Le scuole chiuderanno ufficialmente dal 23 marzo. Ma già dal 16 ai genitori è lasciata la possibilità di non mandare i figli a scuola e di organizzarsi con loro. In una emergenza simile, però, non ci dovrebbe essere spazio per le mezze misure, per le mezze decisioni.
CAOS. Quello che spaventa di più è che se dovesse scoppiare l’epidemia come è successo in Italia o in altri Paesi del mondo, qui rischia di crearsi il caos puro. Perché ci sono ampie zone del Brasile che già vivono in emergenza costante, quotidiana: aree in cui tutti i giorni migliaia di persone devono lottare, devono cercare il modo di tirare avanti, di arrivare a domani. Un’emergenza sopra un’emergenza rischia di lasciare un segno indelebile, soprattutto nelle fasce più deboli.