AL DI LA’ DEL MEKONG
Non viralizzare la Chiesa, la scuola, la famiglia, il mondo

Non viralizzare la Chiesa, la scuola, la famiglia, il mondo

C’è grande nostalgia di una chiesa vera, di gesti veri, di un corpo vero. Di tutte quelle esperienza che non possono prescindere dal con-tatto tra di noi

 

In questo periodo di quarantena solo l’accesso alla rete ci consente di “stare insieme”. Se da una parte non abbiamo scelta, dall’altra la pandemia sta definitivamente imponendo la progressiva digitalizzazione e disincarnazione dei rapporti umani. Credo però che prima o poi i nostri corpi si riprenderanno la rivincita tornando ad esigere il contatto tra di noi.

Non è stato un caso quel brano di vangelo proposto nella liturgia della quarta domenica di Quaresima, in piena pandemia, che raccontava di un uomo cieco dalla nascita guarito con la saliva. Gesù «sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: “Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe (che significa Inviato)”. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva…» (Gv 9,6-7).

Mentre ancora dobbiamo guardarci dal contrarre il virus indossando una mascherina che ci protegga dalle goccioline di saliva altrui, e protegga gli altri da eventuali colpi di tosse e goccioline di saliva nostre, Gesù usa la saliva per guarire. Saliva che guarisce e saliva che ammala. Mai avrei pensato di imbattermi in una simile coincidenza di immagini in un tempo in cui la saliva può essere vita o morte!

Per Agostino di Ippona «la saliva sta per il Verbo, la terra è la carne» (Discorso 135). A dire che la saliva è simbolo della vita di Dio e la terra, simbolo della vita dell’uomo. Solo se insieme, l’uomo guarisce. Quel cieco è a sua volta immagine di ogni uomo ancora nell’oscurità, ma che nell’impatto con Gesù viene alla luce, riceve la vita nuova che lo fa figlio di Dio. Potremmo dire anche che quella saliva è acqua di battesimo che fa passare dalla morte alla vita, da una vita solo di terra a una vita di Grazia.

Eppure rimane ancora un altro passo attorno all’immagine della saliva. Gesù non ci guarisce solo con la parola, che pure da Lui proviene, e nemmeno solo con le beatitudini, per quanto dense e profonde. Ci guarisce con la Sua saliva che rimanda al Suo corpo. Al punto che Lui stesso non potrebbe delegare ad altri quel gesto e nemmeno “mandare a dire”. Potrebbe, se si trattasse solo di una parola o di un insegnamento, ma non nel caso della saliva. Per la quale deve esserci necessariamente Lui, il Suo corpo, Parola fatta carne.

La storia della Chiesa è piena di eresie che hanno cercato di aggirare questo materialismo della salvezza mettendo in dubbio la realtà del corpo di Gesù. Qui invece la saliva riporta il corpo alla ribalta. Ci vuole contatto, visione, azione, non solo spiritualismo disincarnato. Gesù non è un astratto principio spirituale, ma è corpo, contatto, visione, ascolto, azione. Purezza. È anche a motivo della purezza di quel corpo che quella saliva ci guarisce. Un corpo impuro si ammala e ammala anche gli altri. Un corpo puro guarisce.

Qui troviamo anche il senso dei sacramenti nella vita della Chiesa. I segni, i simboli, i gesti che si compiono celebrando i vari sacramenti sono tutti in vista di un corpo a corpo con Gesù che ci guarisce. Questi gesti ci guariscono perché ci mettono in contatto con Lui. Vanno celebrati, vanno ricevuti. Vanno creduti. E anche se è lodevole lo sforzo di tutti per celebrare in streaming, il Papa raccomanda di «non viralizzare la Chiesa» con il virus della gnosi, dell’astrazione che dissolve la densità dei corpi e dei gesti d’amore in click solo virtuali. Mentre «la Chiesa, i Sacramenti, il Popolo di Dio – conclude il Papa – sono concreti». Si intuisce facilmente che il monito del papa vale per tutto. Per non viralizzare la famiglia, la scuola e tutte quelle esperienza che non possono prescindere dal con-tatto tra di noi.

Quanto alla vita di fede, c’è grande nostalgia di una chiesa vera, di gesti veri, di un corpo vero. Che la poesia di Alda Merini sa evocare quando pensa al corpo di Gesù come a una «grande colata di sudore e amore». «Questo mi serve» – scrive la poetessa rivolta a Gesù: «averti, rubarti […] avere in me la tua figura». Per lei la fede è sempre e solo innamoramento, corpo a corpo, desiderio estremo di possedere l’Amato, nell’accesso a Lui che solo l’Eucarestia le consente, «e allora io dopo che l’ho mangiata comincio a respirare, ma senza te non ho più respiro» (1).

Eppure un tale realismo non risparmia dalla fatica di credere. Perché «Il poeta è come plasma puro / sopra cui Dio imprime a volte / le proprie contraddizioni», scrive la Merini. Vi sono enigmi, anche in questi giorni di coronavirus, che restano tali, incisi a fuoco sul proprio corpo. È la fede stessa che incide e scava, quasi fosse la mano di Dio. Che feconda ogni istante anche se di dolore. Perché la fede è come una mano – conclude infatti la Merini – «una mano / che ti prende le viscere, / (…) una mano / che ti fa partorire» (2). Così sia.

 

1. Cfr. A. Merini, Corpo d’amore. Un incontro con Gesù, Frassinelli 2001.

2. A. Merini, Magnificat. Un incontro con Maria, Frassinelli 2002, 23.