Temo che la salute diventi un nuovo idolo. Legittimo. Senza salute non si va da nessuna parte. E nondimeno, temo che per la salute si perda la generosità e la spontaneità. Che si perda il coraggio di morire per qualcosa o per qualcuno
«La salvezza dell’uomo è un’espressione troppo grande per me.
Io non vado così lontano.
È la sua salute che mi interesa, la sua salute prima di tutto»
Così il dottor Rieux conclude l’intenso dialogo con padre Paneloux ne La peste di A. Camus. Ed esprime bene la differenza tra salute e sicurezza da una parte, e salvezza dall’altra, anche se vanno tenute insieme. La salute attiene al nostro corpo, a una sfera intima e privata; la sicurezza invece, alla sfera pubblica, ai legami sociali e istituzionali; la salvezza infine, impreziosisce e dà qualità alle prime due, e attiene a quel «non si vede bene che col cuore-l’essenziale è invisibile agli occhi» nella misura in cui quegli occhi e quel cuore, sono quelli di Dio.
Quanto al covid-19, pur escludendo che sia stato creato e si sia mosso secondo una sua geopolitica; e pur sapendo che lo “stato di emergenza” con le sue leggi, non sarà la forma della società futura o che la paura diffusa di questi giorni, non diventerà uno spray da spruzzare all’occorrenza, per placare le prossime manifestazioni popolari; nondimeno, popoli malaticci ed economicamente depressi sono facili da controllare e questo fa comodo a molti.
Temo però altro. E cioè che la salute diventi un nuovo idolo. Legittimo. Senza salute non si va da nessuna parte. E nondimeno, temo che per la salute si perda la generosità e la spontaneità. Che si perda il coraggio di morire per qualcosa o per qualcuno. Troppo preoccupati a difenderci, tutto diventa una minaccia. E una sbadataggine, una distrazione, possono diventare un capo di imputazione. Temo che a motivo della salute, la sorveglianza digitale (1) diventi una sorta di «totalitarismo postmoderno» che ci piega «alle sole funzioni animali del corpo» (2): «Una vogliuzza per il giorno, una vogliuzza per la notte, fermo restando la salute», direbbe Nietzsche. C’è un’attenzione all’umano che paradossalmente lo riduce, spegne la ricerca del senso, limitandosi al «minimalismo di una scienza che si accontenta di pensare alla salute» (3). Anche l’inevitabile deriva digitale delle nostre vite, ci costringerà a declassare la dipendenza dall’online, da patologia globale a “droga leggera locale”. Perché ci siamo dentro tutti.
Vengo poi alla sicurezza che dopo l’11 settembre è diventata essa stessa un idolo. È un concetto molto vicino a quello di salute ma più attinente all’organizzazione sociale, politica e istituzionale delle nostre vite. «Se nei primi anni del novecento Freud poteva dire “l’uomo civile ha barattato una parte della sua felicità per un po’ di sicurezza”, un secolo dopo – scrive U. Galimberti – di felicità se ne vede in giro davvero poca, mentre le leggi, le norme e i sistemi di sicurezza sono aumentati a dismisura» (4). La libertà immolata sull’altare della sicurezza? Che se da una parte è stato necessario per fermare la pandemia, dall’altro temo si perda quel senso della misura in grado di bilanciare, per esempio, il rapporto fra governo centrale e periferie, tra iniziativa pubblica e iniziativa privata. Le declinazioni della questione sarebbero infinite. Una per tutte, la preoccupazione per la sicurezza non fa altro che alimentare nell’immaginario collettivo il sospetto che vi sia sempre un nemico da nominare a seconda delle convenienze del potere, estenuando un clima di paura che facilita il business di molti. Mentre le superpotenze, le solite, con i loro “aiuti” e i big data si contendono la leadership nella battaglia per la Governance mondiale.
Ritengo però che salute e sicurezza non siano sufficienti a scongiurare quella paura della morte vista in azione nella corsa ai supermercati o che giace disinvolta nel recondito pensiero “vita mia, morte tua”, soprattutto quando si è a corto di respiratori… Insomma emozioni e pensieri secondo uno schema “cannibalico e cainesco”, caro alla psicanalisi e che l’ideologia della salute e della sicurezza alimenta.
Quanto alla salvezza, do la parola a Daniele Mencarelli che nel suo ultimo romanzo affronta la questione (5). «Una parola per dire quello che voglio veramente, questa cosa che mi porto dalla nascita, prima della nascita, che mi segue come un’ombra… eccola, e con lei il suo significato più grande della morte. Salvezza. Per me. Per mia madre… Per tutti i figli e tutte le madri. E i padri. E tutti i fratelli di tutti i tempi… O forse questa cosa che chiamo salvezza non è altro che uno dei tanti nomi della malattia, forse non esiste e il mio desiderio è solo un sintomo da curare. A terrorizzarmi non è l’idea di essere malato… ma il dubbio che tutto sia nient’altro che una coincidenza del cosmo, l’essere umano come un rigurgito di vita, per sbaglio».
Salvezza è dunque quell’«espressione troppo grande» che spaventa il dott. Rieux. Forse una «malattia» o «solo un sintomo» che nessuno sa curare. Tocca allora alla poesia dire come stanno le cose. Perché «noi tutti non siamo solo / terrestri. Lo si vede da come (…) tu sei triste / e non sai perché. Noi / nati, noi forse ritornati, / portiamo una mancanza» (6). Noi forse «rigurgito di vita, per sbaglio».
1. Vedi questo articolo di Avvenire
2. M. Recalcati, L’uomo senza inconscio, Milano 2010, 320.
3. P Sequeri, L’idea della fede, Milano 2002, 209.
4. U. Galimberti, I miti del nostro tempo, Milano 2010, 354.
5. Cfr. D. Mencarelli, Tutto chiede salvezza, Milano 2020.
6. M. Gualtieri, Bestia di gioia, Torino 2010, 128.