In tutto il mondo, la pandemia di Coronavirus continua a impedire l’accesso all’istruzione a milioni di bambini e ragazzi specialmente nei Paesi più poveri e svantaggiati. Con conseguenze catastrofiche
Sono circa 140 milioni gli studenti che quest’anno non sono rientrati in classe. Lo afferma l’Unicef che fornisce anche un altro dato particolarmente triste e allarmante: per almeno otto milioni di bambini l’attesa per il primo giorno di scuola in presenza è stata di un anno o più, poiché le loro scuole sono rimaste chiuse per tutta la durata della pandemia di Coronavirus.
Uno degli “effetti collaterali” più devastanti del Covid-19 è stato proprio l’impatto sull’istruzione. Una catastrofe che non ha risparmiato nessuno, come è ben evidente anche nel nostro Paese, che pure si vanta di essere tra i più sviluppati al mondo. Ma la chiusura prolungata delle scuole ha avuto contraccolpi catastrofici soprattutto nelle nazioni povere o in via di sviluppo, dove i sistemi educativi erano già particolarmente fragili o carenti. Il risultato è un drammatico passo indietro rispetto ai molti progressi faticosamente conseguiti negli ultimi decenni, specialmente in termini di accesso all’istruzione. Ma si tratta anche di una gravosa ipoteca sul futuro di tanti Paesi, in particolare dell’Africa subsahariana dove vive più della metà dei bambini non iscritti a scuola, o nelle regioni segnate da crisi e conflitti dove spesso il diritto allo studio non viene garantito, o ancora laddove resistono forti disparità di genere.
Sono tutte situazioni che la pandemia di Coronavirus non ha fatto che aggravare, come documenta anche il rapporto realizzato da Unesco, Unicef, Banca Mondiale e Ocse, presentato lo scorso luglio: “Survey on national education responses to Covid-19 school closures”. Un’indagine condotta in 142 Paesi da cui emerge un quadro a tinte particolarmente fosche: un Paese su 3 non ha implementato programmi di recupero dopo la chiusura delle scuole per il Coronavirus; 1 su 3 (ovvero solo i Paesi ad alto reddito) sta iniziando a valutare le perdite nei livelli di istruzione primaria e secondaria; meno di 1 su 3 (ovvero i Paesi a basso e medio reddito) è riuscito a garantire in tempi brevi il rientro in presenza. Le conseguenze sono state non solo un grave deficit di apprendimento, ma anche un significativo incremento dell’abbandono scolastico e di fenomeni correlati come i matrimoni forzati, il lavoro minorile, i ragazzi di strada e persino la malnutrizione. Per molti studenti, infatti, la chiusura delle scuole ha significato anche la privazione del loro unico pasto al giorno: nel corso del 2020, il numero dei bambini malnutriti è aumentato di circa 80 milioni, soprattutto a causa del mancato accesso a scuola. Del resto, come evidenzia bene il rapporto, in tutto il mondo le scuole sono rimaste completamente chiuse in tutti e quattro i livelli di istruzione per una media di 79 giorni, ovvero circa il 40% del totale della media Ocse e del G20. Ma nei Paesi più poveri si è arrivati anche a 115 giorni di chiusura.
E ancora non è finita: nazioni come l’Uganda o il Sudafrica, che hanno dovuto affrontare un’ondata particolarmente severa di Coronavirus negli scorsi mesi, hanno chiuso nuovamente le scuole e applicato misure di lockdown con gravi ripercussioni anche in tutti gli ambiti della vita economica e sociale. Inoltre, molti Paesi dell’Africa subsahariana (e non solo) non sono riusciti a mettere in campo modalità di insegnamento alternative, on line o televisive. «L’apprendimento da remoto – ha evidenziato Robert Jenkins, responsabile per l’istruzione di Unicef – è stato un’àncora di salvezza per molti bambini. Ma per i più vulnerabili, è stato impossibile».
Solo in Sudafrica, il Catholic Institute of Education stima che circa mezzo milione di bambini abbiano lasciato le scuole. Mentre in Guinea-Bissau, il Covid-19 si è accanito su un sistema scolastico già in stato comatoso a causa dei mancati pagamenti degli insegnanti e dei conseguenti continui scioperi. «Da circa tre anni, le scuole funzionano a singhiozzo – racconta padre Naresh Gosala dalla missione Pime di Catió, nel Sud-Est del Paese – e durante i primi mesi della pandemia sono state chiuse del tutto. Noi gestiamo cinque scuole primarie con circa 1.800 studenti. Grazie al contributo della comunità e a quello della missione, siamo riusciti a garantire agli insegnanti un minimo di salario e per questo abbiamo potuto tenerle aperte quasi sempre. Inoltre, abbiamo messo a disposizione mascherine e gel disinfettante e abbiamo rispettato tutte le norme anti-Covid. Lo stesso vale per la scuola delle suore benedettine di Catió così come per il liceo cattolico di Bafatá e per le scuole delle missionarie dell’Immacolata in varie parti del Paese. Lo stesso vale per la scuola che il Pime gestiva a Bissau e che è stata recentemente consegnata alla diocesi; tutte le realtà scolastiche cattoliche sono autogestite e tutte sono state regolarmente riaperte il 4 ottobre. Quelle dello Stato, purtroppo, rischiano di rimanere chiuse anche quest’anno. E non solo a causa della pandemia».
In un Paese povero e arretrato come la Guinea-Bissau tutto questo significa tarpare ulteriormente le ali a migliaia di giovani che senza un’istruzione avranno scarse possibilità di migliorare le loro condizioni di vita. Inoltre, qui come altrove, non è stata messa in campo nessuna iniziativa di didattica a distanza. Anche i programmi di recupero sono stati realizzati solo nei Paesi che dispongono di maggiori risorse – e che in alcuni casi hanno aumentato i budget dell’istruzione -, ma risultano estremamente ridotti se non inesistenti in molti contesti svantaggiati. «Riaprire al meglio – sostiene Jenkins – significa implementare tali programmi per aiutare gli studenti a rimettersi in pari e assicurare che venga data priorità alle ragazze e ai bambini vulnerabili».
Le studentesse, in particolare – che avevano fatto grandi passi avanti soprattutto nell’accesso alla scuola primaria – rischiano nuovamente di venire escluse dai sistemi educativi. Non solo, però: molte di loro, a causa della chiusura delle scuole, sono state immediatamente inserite nelle reti del lavoro informale per aiutare le famiglie in grave difficoltà a causa dei lockdown; altre sono state costrette a matrimoni precoci e forzati, un modo per la famiglia di “liberarsi” di una bocca da sfamare e di ottenere una dote.
Secondo un altro rapporto di Unicef (“Covid-19, a threat to progress against child marriage”), entro il 2030 potrebbero esserci dieci milioni in più di spose-bambine, minacciando anni di progressi nella riduzione del fenomeno: «La chiusura delle scuole, lo stress economico, l’interruzione dei servizi, le gravidanze e la morte dei genitori a causa della pandemia espongono in misura maggiore le ragazze più vulnerabili al rischio di matrimonio precoce».
Secondo i dati della ricerca, nel mondo sono circa 650 milioni le donne e le ragazze date in sposa da bambine; circa la metà si trovano in Bangladesh, Brasile, Etiopia, Nigeria e India.
In quest’ultimo paese, e in particolare nello stato dell’Andhra Pradesh, il numero di bambine coinvolte in matrimoni precoci è raddoppiato in tempo di pandemia. Venkataswamy Rajarapu, direttore generale di Street2School, un programma dell’ong italiana Care&Share che opera in India da più di 30 anni, parla di una situazione drammatica e di come, per capire il fenomeno, si debba tenere conto anche di fattori culturali ed economici: «Nelle comunità rurali e marginalizzate non si aspetta l’età legale per il matrimonio. Le bambine vengono date in spose a 14 anni perché pure i genitori si erano sposati alla stessa età. Ma le famiglie lo fanno anche per motivi economici: con il Covid-19 la dote costa meno e siccome molti genitori sono rimasti senza lavoro accettano di far sposare le figlie ora perché i prezzi poi potrebbero aumentare. Inoltre, più la ragazza è giovane, meno devono spendere».
Ma non finisce qui: «Anche la paura che la ragazza possa sposare qualcuno di una casta diversa o di un’altra religione è un fattore importante – continua Rajarapu -. Se dovesse succedere, la ragazza sarebbe accusata di disonorare la famiglia. Molti giovani si suicidano o vengono uccisi per questo».
In India, come in molti altri Paesi, la pandemia e le relative difficoltà economiche e di accesso a scuola hanno spinto molti ragazzi (ma anche parecchie ragazze) verso la vita in strada, dove è cresciuto sensibilmente il numero degli street children. I quali, di converso, sono stati a loro volta particolarmente colpiti dalla pandemia. Secondo il Consortium for Street Children «molti non hanno accesso ad acqua pulita, assistenza sanitaria e riparo. Per le strade, possono contrarre il virus e, a causa delle condizioni di salute precarie, rischiano maggiormente di sviluppare complicanze. I bambini di strada subiscono discriminazioni e crudeltà da parte delle comunità che temono il virus e di coloro che dovrebbero proteggerli: polizia e altre autorità. Hanno bisogno di servizi sanitari, ma anche di informazioni per capire come proteggersi».
«La situazione a Yaoundé è stata davvero critica – conferma padre Maurizio Bezzi, missionario del Pime, che per trent’anni si è occupato di enfants de la rue nella capitale del Camerun -. I ragazzi di strada sono particolarmente a rischio perché la pandemia va ad aggiungersi a condizioni di estrema povertà e precarietà». Lo scorso anno, in particolare, il governo ha imposto la chiusura non solo delle scuole, ma anche dei luoghi di accoglienza, come il Centro Edimar, creato da padre Bezzi. «Quando sono state annunciate le misure di contenimento – spiega l’attuale responsabile Mireille Yoga – ci siamo subito attivati per sensibilizzare i ragazzi di strada affinché capissero la gravità e l’urgenza di quanto stava accadendo in un Paese dove non ci sono neppure strutture in grado di prendersi cura dei malati». E così gli operatori, invece di accogliere i ragazzi nel Centro (un centinaio al giorno), sono andati loro stessi in strada per seguire in particolare i più piccoli, dare loro qualche consiglio per proteggersi e un minimo di assistenza.
Con questo fenomeno si è confrontato anche fratel Lucio Beninati, missionario del Pime, che da circa quindici anni condivide la sua vita con i bambini di strada di Dacca, la popolosa e caotica capitale del Bangladesh. «Il numero dei ragazzi abbandonati a loro stessi continua a crescere – testimonia -. La maggior parte ha tra gli 11 e i 12 anni, ma ce ne sono anche di più piccoli. E ovviamente di più grandi. E pure qualche bambina. Molti di loro sono psicologicamente fragili». Sempre in Bangladesh, a Dinajpur, pandemia e lockdown hanno messo in difficoltà anche la Novara Technical School, un istituto tecnico creato e gestito dal Pime che offre corsi biennali. «Le scuole sono rimaste chiuse da marzo 2020 e riapiranno solo il 5 ottobre – racconta Alberto Malinverno, volontario dell’Associazione Laici Pime (Alp) -. Essendo un istituto tecnico non abbiamo potuto nemmeno fare lezioni on line, per cui abbiamo richiamato i ragazzi che stavano frequentando il secondo anno e abbiamo consegnato loro il diploma. Poi li abbiamo accompagnati a Dacca e aiutati a cercare lavoro. Non potevamo fare altro».
Anche la didattica a distanza in Bangladesh è stata un fallimento pure nelle università che l’hanno utilizzata: solo il 10% degli studenti ha potuto seguire le lezioni on line, perché la maggior parte non può permettersi un computer o una connessione internet. «Il dato rispecchia la distribuzione della ricchezza nel Paese – continua Malinverno -: i più abbienti sono una fetta piccolissima della popolazione, per cui è normale che a seguire le lezioni on line siano stati solo loro».
In Cambogia, padre Alberto Caccaro, missionario del Pime, segue tre istituti scolastici nella Prefettura apostolica di Kampong Cham (uno nella città di Prey Veng e gli altri due nei villaggi di Pka Doung e Thmor Pech). Il Paese ha registrato molti meno casi di Covid-19 rispetto ad altre nazioni del Sud-Est asiatico, ma anche qui, nonostante il numero ridotto di decessi, le prima scuole stanno riaprendo solo adesso dopo essere rimaste chiuse per quasi due anni ed essere state utilizzate come luoghi di quarantena. Per limitare il numero di abbandoni, padre Caccaro e gli insegnanti cambogiani hanno escogitato un’alternativa: gruppi di 10-12 alunni si ritrovavano a casa di uno dei ragazzi o in un’aula delle scuole del Pime, mentre gli insegnanti facevano la spola da un gruppo all’altro e tenevano lezioni più brevi. In questo modo almeno sono riusciti a dare una certa continuità all’attività educativa. «I ragazzi non hanno perso la socialità e non si isolanovano, anche se in campagna il rischio che ciò accada è minore rispetto alla città – racconta padre Caccaro -. Trattandosi di gruppi ristretti, poi i contagi potevano essere tenuti sotto controllo più facilmente». Inoltre, padre Caccaro annuncia con gioia che presto verrà aperto un altro istituto : «È il nostro modo per reagire a questa situazione e per non tradire la fiducia dei ragazzi». Ma è anche uno dei tanti sforzi che si stanno facendo in tutto il mondo affinché – come ripete spesso Papa Francesco – si punti davvero sull’educazione come via fondamentale per costruire un mondo più fraterno, pacifico e solidale.