AL DI LA’ DEL MEKONG
Accanto a un prete, ricoverato per Coronavirus

Accanto a un prete, ricoverato per Coronavirus

«Beati i puri di cuore perché vedranno Dio» recita una delle beatitudini secondo Matteo. Forse l’esperienza di questo virus sta facendo riemergere una profonda nostalgia di comunione, di verità, di rapporti più certi, più autentici tra di noi

«No, non temere mai nulla da Dio…
poiché nel cosmo non c’è altro che vita,
e ogni apparenza di morte non è,
nell’esistere, che un confidare la carità
del vissuto a ciò che sempre vivrà». C. Betocchi

Hanno ricoverato un amico sacerdote. Per coronavirus. La notizia è corsa tra di noi che un tempo, ancora giovani, abbiamo tratto profitto dalla sua cura pastorale, dalla sua presenza autenticamente sacerdotale. Al sopraggiungere della notizia, abbiamo sentito la necessità istintiva, impetuosa, di scriverci, chiederci reciprocamente preghiere, sfondare quel muro di solitudine che le distanze imposte hanno generato tra di noi in questi giorni di coronavirus.

Lo pensiamo ora solo, in isolamento, in terapia intensiva, circondato certamente dalla sollecitudine del personale medico, ma solo. E per un sacerdote che può già aver perso i genitori, la solitudine è ancor più sola. Senza il conforto dei figli o di una persona che con te ha diviso la vita, si è un po’ più soli, lasciatemelo dire così. Non c’è dubbio, rimane l’affetto dei fedeli, ma in casi estremi come questi, si fa più rarefatto, distante, a tratti e involontariamente inconsistente. Non è colpa di nessuno. È la vita scelta e benedetta con Cristo, per Cristo e in Cristo.

Di qui forse l’impeto di pregare insieme per questo uomo di Dio. Anzi, cresce il desiderio di essere ancor più presenti, seppur distanti, ancor più oranti, ancor più supplici per il suo bene e la sua guarigione. «Beati i puri di cuore perché vedranno Dio» recita una delle beatitudini secondo Matteo. Forse l’esperienza di questo virus sta facendo riemergere una profonda nostalgia di comunione, di verità, di rapporti più certi, più autentici tra di noi.

C’è un aspetto catartico da non trascurare in quello che stiamo vivendo, un anelito alla conversione che si impone e dovremmo assecondare. Anche sul fronte laico, della società civile, affiora in tempi come questi un anelito al vero. Gian Antonio Stella, sulle pagine del Corriere, citava Elias Canetti in La provincia dell’uomo, «Voglio parole che non si degradano, parole che non sfioriscono… le altre parole non le voglio…» – Basta, con le parole che volano via… L’imbarbarimento complessivo del vivere che non è più civile, il dibattito pubblico sempre più scurrile, provocatorio, diffamatorio, ha reso l’aria irrespirabile, ha generato crisi respiratorie ben prima del coronavirus… Mi chiedo se non vi siano delle responsabilità anche in quei giornali che quotidianamente diffondono banalità, ovvietà, e riportano ogni sorta di offesa, di turpiloquio, pur di stare nella mischia e vendere qualche copia in più.

Nella solitudine in cui questa terribile malattia costringe, la sola parola sensata è quella orante, l’unica in grado di portare il peso e il mistero di ciò che sta accadendo, con verità e purezza d’animo. Non cerchiamo colpe, non cerchiamo capri espiatori, non cerchiamo l’offesa, ma solo la preghiera gli uni per gli altri «nella comunione dei cuori, facendo tesoro della forza di quei legami preziosi costruiti nel tempo condiviso», mi scriveva un’amica. In un tempo di crisi, solo questo tiene, i legami preziosi costruiti nel tempo condiviso…

«Sappiamo quanto è triste / stare lontani un metro» (1). Sappiamo che la violenza più cruda di questo virus è che ci fa vivere da separati in casa. Ci tiene lontani e ci lascia soli proprio nel momento della malattia. E della morte. Sorge imponente l’impeto a non trascurarci e a farlo pregando, mentre non possiamo ancora abbracciarci. Carichiamo la preghiera di tutti quei gesti di affetto che avremmo voluto esternare, di tutte quelle parole di incoraggiamento che avremmo voluto pronunciare. Teniamo tutto in serbo, nella preghiera. A breve toglieremo le maschere, si… le toglieremo e avremo ancora il tempo di dirci parole vere, pure. Legami e parole, dunque, sembrano già un programma di vita, un desiderio del cuore, l’alba di un modo nuovo di con-vivere.

Un amico medico raccontava la fatica di gestire gli ultimi istanti di vita dei malati morenti, nel rapporto con i loro cari, per telefono, perché non posso essere presenti al capezzale. «Dottore, le dica che ci siamo, che gli siamo vicini, che gli vogliamo bene. Che ci rivedremo…». «E poi chiamarli per dire loro che è finito…». Così tra fratelli, tra figli e genitori, tra nipoti e nonni. Non solo questa incolmabile distanza, ma anche il fatto che dopo la morte non possono essere esposti, ma subito riposti nella bara e chiusi. Dolore sopra dolore…

«Voglio credere però, soprattutto adesso, alla forza dei legami, quelli veri. Alla forza dei pensieri e delle parole, delle preghiere pronunciate insieme, dei canti, dei giochi, delle riflessioni che ci hanno fatto crescere insieme. A quella Comunione spirituale che va oltre ogni separazione». Forza Don! Siamo con te nell’«affidare la carità del vissuto a ciò che sempre vivrà». Così sia.

 

  1. M. Gualtieri, Sette marzo duemilaventi