Nel libro di Ian Williams, un tema sempre più d’attualità anche nella nostra società, dove aumentano gli immigrati e le seconde generazioni, ma pure i pregiudizi razziali. Un testo che fa riflettere
Essere neri in un contesto di maggioranza bianca. È un tema che da decenni viene affrontato da scrittori e studiosi afroamericani negli Stati Uniti, da W.E.B. Du Bois a James Baldwin. Uno degli ultimi contributi alla discussione è il libro “Disorientamento. Essere neri nel mondo” di Ian Williams (edito in Italia da Keller, pp. 246, 18 euro). Nativo di Trinidad, poeta e scrittore, il quarantacinquenne Williams, docente universitario e vincitore di vari premi letterari, da ragazzino è giunto con la famiglia in Canada. Qui ha sperimentato sulla sua pelle che cosa significa “essere l’unico nero nella stanza”, o quasi. Uno shock per un bambino cresciuto fino a quel momento in una società in cui l’80% della popolazione era di origine africana e indiana, e il resto invece frutto di un miscuglio di genti provenienti da più parti del globo. L’argomento affrontato da Williams è sempre più d’attualità anche nella nostra società, dove è in crescita il numero degli immigrati e delle seconde generazioni, ma anche quello dei giovani italiani nati da coppie miste. Non usiamo volutamente il termine “meticcio”, che evoca un passato razzista: in Italia abbiamo avuto nel 1940 una legge contro il meticciato, nata per negare la piena cittadinanza ai figli dei soldati italiani e delle donne africane nelle colonie.
Il libro di Williams non è un trattato sociologico. Guarda molto all’esperienza personale. Per descrivere il momento disorientante in cui si diventa consapevoli della diversità legata al colore della pelle, l’autore racconta l’esperienza della nipotina di dieci anni, figlia di suo fratello e di sua moglie, bianca. È l’ora della ricreazione. Un gruppo di ragazzine fa passare di mano in mano un cellulare in cui guardano un video. Una bambina, apostrofata “faccia da topo” dalle compagne per il suo aspetto, se la prende con l’unica compagna di colore. “Sei proprio una nxxxx”, le dice (Williams, nel libro, censura con un quadratino nero questa parola ogni volta che la usa, si legge solo la “n” iniziale). È «il colpo di frusta della razza sferzato mentre ci si fa gli affari propri», scrive. Un fulmine a ciel sereno, che giunge in un momento in cui «si è impreparati a pensare a se stessi in termini razziali». Qualcuno potrebbe obiettare che i bulli se la prendono con chiunque. Si può essere presi in giro per un naso troppo grosso o per il colore dei capelli. Ma giustamente Williams sottolinea che questo tipo di derisione fa leva sulle differenze fisiche, e non comporta il disorientamento razziale. Essere bianchi in Canada, negli Stati Uniti o in Europa è la condizione prevalente. Un bianco è consapevole di esserlo? Generalmente no. La bianchezza è invisibile, «l’invisibilità la rende innocente». Come Williams sperimenta, si diventa consapevoli di incarnare una diversità solo quando si è minoranza. Può capitare anche ai bianchi di provare disorientamento in Africa o in Asia, quando si finisce nelle foto altrui come oggetti di curiosità.
Il viaggiatore bianco non si sente mai fuori posto, però. Anche senza esserne consapevole, il bianco ha stima di sé, è da secoli al centro della narrazione. Significativa è l’osservazione di James Baldwin, quando un occidentale si trova a essere l’unico bianco «prende la meraviglia come un tributo, perché viene a conquistare e convertire gli indigeni, la cui inferiorità rispetto a lui non va neppure messa in discussione». Al contrario, essere l’unico nero in Paese come gli Stati Uniti lo fa sentire così: «Io, senza un disegno di conquista, mi trovo in mezzo a un popolo la cui cultura mi controlla». Incalza Williams: «Quando i bianchi mi dicono: “Sembri un bianco quando parli”, intendono farmi un complimento». La bianchezza è preferibile: secondo l’autore, è qualcosa che si impara fin da piccoli, a prescindere dall’essere bianchi o neri. È una mentalità dura a morire, e gli Stati Uniti ne sono un esempio lampante. Per anni, dopo l’abolizione della schiavitù, la “One drop rule” ha dettato legge. Bastava avere una goccia di sangue nero, un lontano antenato, per essere considerati neri e subire discriminazioni. La segregazione razziale negli Usa è rimasta in vigore fino al 1965, anno in cui sono state abrogate le ultime disposizioni delle leggi Jim Crow negli Stati del Sud.
Tra aneddoti interessanti sulla sua vita personale come studente liceale in Canada, professore universitario nero e come marito di una donna di origine asiatica, Williams ci racconta come viene percepito dagli altri e quali riflessioni gli scatenano i comportamenti altrui. Il Canada è diverso dagli Stati Uniti: un nero di Washington o di Chicago sa di far parte della storia del suo Paese, è americano perché i suoi antenati africani sono stati costretti con la forza a diventarlo. In Canada, invece, la storia dello schiavismo è stata più breve ed è meno significativa la presenza di afrodiscendenti. «C’è ancora la percezione che un canadese nero sia di qualche altro posto – non del Canada. Forse dei Caraibi o dell’Africa», scrive Williams. Una visione non dissimile da quella europea: i neri italiani o tedeschi sono un fenomeno più recente e sono percepiti come stranieri. Tuttavia, non avere alle spalle una storia come quella americana, dove ancora oggi si può morire come George Floyd per il colore della pelle, non ci mette al riparo dal razzismo.
Leggere il libro di Ian Williams può essere uno spunto per tutti a vigilare. La nostra storia recente è costellata di episodi di razzismo, soprattutto verso chi ha la pelle più scura. La nostra prima e unica ministra afroitaliana, Cecile Kyenge, è stata bersaglio di insulti razzisti. E lo stesso è successo al calciatore Mario Balotelli, cittadino italiano nero. Se questi personaggi importanti finiscono sotto i riflettori, ci sono migliaia di neri – immigrati o di seconda generazione – vittime di pregiudizi, le cui storie non interessano a nessuno. Il razzismo cova sotto la cenere, anche dove non te l’aspetteresti. Una ricerca resa nota lo scorso anno, svolta da alcune università in Belgio, Spagna e Germania, ha analizzato le reazioni di un campione di 13.000 aziende di fronte al curriculum di un candidato/a con fotografia. Chi aveva un fenotipo nero o asiatico a prima vista otteneva una riduzione del 20 per cento di interesse da parte del datore di lavoro. E questo valeva anche per i ragazzi e le ragazze nati in Europa da genitori immigrati. Ma non dimentichiamo che il pregiudizio nuoce anche a chi ce l’ha: lo rende schiavo, impedendogli di guardare agli altri con la libertà di una mente sgombra da preconcetti.