Arrivai in Cambogia nel giorno della festa di sant’Agostino. E ora mi accingo a insegnare la sua filosofia in lingua khmer alla Royal University di Phnom Penh. Perché anche in questo Paese è essenziale capire la differenza tra le sue “Confessioni” e un banale selfie.
«Interior intimo meo
et superior summo meo»,
Agostino d’Ippona, Confessioni, III, 6, 11.
Sono arrivato in Cambogia più di vent’anni fa, nell’agosto del 2001 – il 28 per l’esattezza – nel giorno in cui la Chiesa venera Sant’Agostino. Ed ora mi accingo ad insegnare proprio la filosofia del santo di Ippona presso la Royal University of Phnom Penh avendo tra le mani una versione delle sue Confessioni in lingua Khmer che, seppur ridotta rispetto all’originale, costituisce un primo approccio al mondo interiore di questo grande santo.
Ora, è lecito chiedersi: che cosa centra Agostino – uomo vissuto a cavallo tra il IV e il V secolo – con l’incipiente modernizzazione della Cambogia? Ebbene, questo Paese, come ogni altro Paese, avrà … vita, futuro, speranza, … solo se chi lo abita riuscirà a capire la differenza tra le Confessioni del santo d’Ippona e un banale selfie con tutta quella nuvola di significati che si trascina. Perché se da una parte, anche in Cambogia, farsi un selfie è il gesto più comune e quotidiano, più ordinario e banale che ci sia, dall’altra, affinché tal gesto non promuova solo individualismo e qualunquismo, esibizionismo ed opportunismo, talvolta erotismo, andrebbe bilanciato con una proporzionale attitudine alla conoscenza di sé e al colloquio interiore. Dunque, Confessioni o selfie?
Ritengo infatti che i milioni di selfie che ci facciamo non siano altro che esplorazioni di sé, tentativi di mettere in atto quel “conosci te stesso” che dovrebbe accompagnarsi – sostenevano i filosofi classici – alla «consapevolezza di essere inferiori a Zeus».[1] Impresa difficile perché il numero di selfie, le infinite posture e smorfie che catturiamo nello scatto, quel perdurante stare allo specchio di sé, alla fine – lo sappiamo – ci incatena a noi stessi e promuove solo il monoteismo dell’io, monade solitaria che confonde comunione con connessione e relazione con proiezione. Eppure, per quanto amiamo guardarci, in realtà non ci vediamo mai, ci sfuggiamo continuamente, manchiamo il bersaglio e andiamo avanti: infinite pose, altrettante smorfie, sempre al centro dell’inquadratura con labbra piene e parole vuote, assenti a noi stessi e mendicanti di sguardi.
Nondimeno, incoraggiato da tale tendenza, ritengo che le Confessioni di sant’Agostino siano la via giusta per “correggere” il tiro. Perché ogni singola pagina di quel libro è un selfie! Agostino non fa altro che parlare di sé, dei suoi desideri, delle sue eresie, dei suoi amori, delle sue tentazioni, delle sue menzogne, delle lacrime inarrestabili e copiose di sua madre, degli amici vivi e di quelli morti, dei suoi dei semidivini e circonfusi di gnosi, all’inizio convincenti e poi sempre troppo piccoli per quel suo cuore smisurato: «Ci hai fatti per te [Signore] e il nostro cuore non ha pace finché non riposa in te» (Confessioni I, 1,1), è forse il suo passo più celebre. Ma è necessaria una mamma che non smette di invocare per il figlio il dono della conversione ed è necessario un uomo la cui geografia interiore si scopre, per ampiezza e profondità, più grande di qualsiasi altro orizzonte terreno e mondano. Solo così è possibile «lo svuotamento della propria saturazione egologica per fare spazio e aprirsi a qualcosa che è oltre l’orizzonte della propria autoreferenzialità».[2] Per dirla con Agostino, quell’oltre è già dentro – «interior intimo meo» – intimo a me più di me stesso.
Non c’è pagina delle Confessioni nella quale Agostino non sia impegnato in un soliloquio dell’anima che è in realtà sempre un a tu-per-tu con Dio, ora Creatore, ora Redentore, ora Custode, ora Maestro, ora Confessore, ora Consolatore. E non c’è pagina senza la sua mamma. È dappertutto, tra le righe, sullo sfondo, da qualche parte in lacrime o in preghiera, lo accompagna fino a Milano e non si ferma se non quando ottiene per il figlio la grazia del battesimo. Agostino sa che senza di lei non avrebbe camminato così tanto, dentro e fuori di sé, eppure anche la sua scrittura non basta a descrivere il mistero di una donna così: «non so esprimere adeguatamente i suoi sentimenti verso di me e quanto il suo travaglio nel partorirmi in spirito fosse maggiore di quello con cui mi aveva partorito nella carne» (Confessioni V, 9,16). C’è in gioco sempre una più radicale nascita perché, se quella dal basso è già avvenuta, quella dall’alto è in-cipiente, in-travaglio, in corso d’opera. È un nascere in e dentro ogni istante, una continua sorpresa a se stessi, oltre ogni logica puramente naturale o sistemica. Lo stesso vale quando Agostino si cimenta con il mistero di Dio. Il santo non è mosso da intenti puramente intellettuali: non «dimostra Dio […] al fine di spiegare il cosmo, bensì per “fruirne” (frui Deo), per riempire il vuoto del suo animo, per porre fine all’inquietudine del suo cuore, per essere felice».[3] Per ri-nascere!
Nell’introduzione alla versione Khmer delle Confessioni si riconosce ad Agostino l’ardore di aver compiuto il salto dalla tradizione platonica (nella lettura di Plotino) all’incontro con Gesù Cristo, Verbo di Dio fatto uomo, senza per questo aver perso la ragione per strada. Tale fu il genio di Agostino: filosofo per ragione, teologo per passione!
Nelle pagine delle sue Confessioni la fede emerge come «suprema razionalità»,[4] come ciò che riesce, più di ogni altra cosa, a «corrisponde alle esigenze fondamentali e originali del cuore dell’uomo».[5] Persino di quell’uomo intelligente, volitivo e passionale che era Agostino.
Dunque, se oggi ogni ricerca di senso rischia di implodere nell’orizzonte corto di un selfie, che cosa ci rimane se non … continuare! Ancora un selfie, ma questa volta pieno di Dio, pieno di mondo, pieno di sé, come i selfie di Agostino!
[1] B. Snell, I sette sapienti. Vite e opinioni, Milano 2005, 21.
[2] Cf. G. Cusinato, Etica e cura del desiderio, in https://rivista.thaumazein.it/index.php/thaum/article/view/19.
[3] G. Reale – D. Antiseri – M. Laeng, Filosofia e pedagogia dalle origini ad oggi, I. Antichità e Medioevo, Brescia 1991, 309.
[4] L. Giussani, Il rischio educativo, Milano 2005, 29.
[5] Ibid., p. 21.