Nel libro-intervista al teologo gesuita belga – pubblicato postumo a quindici anni dalla morte – il racconto degli anni vissuti in India aiuta a capire le sue tesi sul rapporto tra il cristianesimo e le altre fedi. Giovedì 14 alle 18,30 al Centro Pime di Milano ne parlano Giancarlo Bosetti, direttore di Reset, e padre Gianni Criveller, missionario del Pime
Tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila il suo nome fu al centro delle cronache ecclesiali. Padre Jacques Dupuis – teologo gesuita belga, docente all’Università Gregoriana e consultore del Pontificio Consiglio per il Dialogo interreligioso – finì al centro di un vero e proprio «caso» per un procedimento aperto nei suoi confronti dalla Congregazione per la Dottrina della fede (allora guidata dal cardinale Joseph Ratzinger). Oggetto del contendere furono le tesi espresse da questo teologo sul tema del pluralismo religioso, cioè il suo tentativo di ricondurre all’interno del disegno di Dio la presenza delle religioni non cristiane. Il “caso Dupuis”- che andò a intrecciarsi nel 2000 con la pubblicazione della dichiarazione Dominus Iesus «circa l’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa» – suscitò un dibattito molto forte all’interno del mondo teologico, anche per l’immediata sospensione di padre Dupuis dall’insegnamento che seguì all’apertura dell’indagine. Il procedimento si sarebbe poi chiuso nel 2001 con una Notificazione ufficiale riguardo alla sua principale opera (il volume Verso una teologia del pluralismo religioso): in quel testo la Congregazione vaticana riconosceva a Dupuis «il tentativo» di rimanere nei «limiti dell’ortodossia», ma nello stesso tempo metteva in guardia i lettori su una serie di «notevoli ambiguità e difficoltà su punti dottrinali di rilevante portata» contenuti nella sua visione teologica.
Padre Dupuis continuò a considerare questo giudizio una lettura affrettata delle tesi del suo libro, nel quale – spiegava – non aveva mai messo in discussione la centralità della figura di Gesù Cristo nella storia della salvezza. Spiegò però anche che il clima di sospetto sulla sua fedeltà al magistero – che non terminò con la pubblicazione della Notificazione – l’aveva ferito profondamente. Ed è quanto lui stesso racconta in un libro-intervista uscito postumo recentemente, a ormai parecchi anni dalla sua morte. Il mio caso non è chiuso – pubblicato in Italia dalle edizioni Emi – è infatti il frutto di un lungo dialogo con l’amico giornalista Gerard O’Connell, registrato pochi mesi prima della morte improvvisa del teologo, sopraggiunta nel 2004 all’età di 81 anni. Per Dupuis quella sarebbe dovuta essere la sua ricostruzione dell’intera vicenda del procedimento aperto nei suoi confronti; solo che la scomparsa repentina del teologo relegò questa sorta di testamento in un cassetto. Anche perché – pochi mesi dopo, nell’aprile 2005 – l’allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede era diventato Papa Benedetto XVI; e la riapertura del dibattito sul caso Dupuis avrebbe assunto un significato completamente diverso da quello che il gesuita probabilmente immaginava.
Dopo il 2013 però il contesto ecclesiale si è fatto di nuovo diverso, e così O’Connell ha scelto adesso di dare alle stampe il manoscritto che padre Dupuis stesso aveva rivisto. Non tanto per il gusto di togliersi qualche sassolino dalla scarpa, ma proprio per rilanciare la domanda che la riflessione di padre Dupuis aveva posto al centro e che appare oggi – in un mondo in cui la globalizzazione pone uomini di fedi diverse sempre di più fianco a fianco – quanto mai cruciale: se Dio è uno perché ci sono tante religioni nel mondo? E quale origine e natura hanno per il cristianesimo quei «semi del Verbo» che il Concilio Vaticano II afferma essere presenti nelle religioni non cristiane? Ed è quanto sarà al centro anche della presentazione del volume in programma al Centro missionario Pime di Milano (via Monte Rosa 81) con la partecipazione di Giancarlo Bosetti, direttore di Reset e autore della prefazione che introduce il volume, e padre Gianni Criveller, missionario del Pime.
L’intento è evidentemente quello di riaprire la discussone sulle tesi teologiche di Dupuis. Per farlo con la giusta consapevolezza, però, particolarmente interessanti diventano i passaggi nei quali, nel primo capitolo del libro, il gesuita belga racconta i suoi 36 anni trascorsi come missionario in India e il lavoro svolto negli anni del Concilio per la Conferenza episcopale locale. È una lettura illuminante per capire un punto fondamentale: la sua teologia del pluralismo religioso non nasceva da una mera indagine speculativa, ma da un’esperienza di vita, dalla scoperta della bellezza e della profondità spirituali che gli antichi templi indù o gli amici monaci buddhisti gli comunicavano.
La scelta di offrirsi per la missione in India in lui era maturata già durante gli anni della formazione in Belgio: a Calcutta Dupuis era arrivato nel 1949 ancora seminarista e il primo passo era stato l’apprendimento della lingua locale, il bengali. Già allora non fu solo lo studio di un codice, ma l’ingresso in un mondo: «Era infinitamente gratificante acquisire la capacità di leggere nella lingua originale le poesie finissime e profondamente religiose di Tagore», ricorda ad esempio. La sua ordinazione sacerdotale avvenne poi nel 1954 a Kurseong, una località a 2.000 metri ai piedi dell’Himalaya, dove i gesuiti avevano la loro facoltà teologica in India.
Lì avrebbe cominciato a insegnare qualche anno dopo. E tra le esperienze più significative di quegli anni nel libro ricorda la ristrutturazione della cappella per «adeguarla» al contesto indiano. «Con una squadra di quattro studenti particolarmente dotati come artigiani e pittori lavorammo giorno e notte durante le vacanze alla fine dell’anno accademico 1967», racconta il teologo. A Kurseong comparvero così un Cristo Pantocratore dipinto in stile indiano e un ambone scolpito in legno a forma di loto e sormontato dal sacro Om, il simbolo che per la tradizione religiosa locale esprime l’idea della parola di Dio. Su un livello più accademico padre Dupuis collaborò anche alla stesura di una preghiera eucaristica in cui si citavano i tre margas, le vie della conoscenza, della devozione e del lavoro che sono il percorso attraverso cui viene cercata l’unione con Dio nelle religioni della tradizione indiana.
Simbolica fu anche la vicenda del trasferimento della facoltà teologica dei gesuiti da Kurseong a Delhi, la capitale. «Dopo il Concilio sembrava assurdo che la formazione teologica dei futuri sacerdoti gesuiti avvenisse sull’Himalaya, tra le nuvole», spiega nel colloquio padre Dupuis. Aggiungendo però che quel trasferimento lui aveva voluto compierlo guidando personalmente la sua motocicletta per più di duemila chilometri.
Proprio quest’immagine del teologo «on the road» che attraversa l’India profonda diventa una chiave per capire la sua teologia. Nel libro-intervista il gesuita belga diceva espressamente all’amico giornalista di considerare gli anni vissuti in India come una grazia particolare. Un’esperienza che gli aveva aperto gli occhi, oltre i pregiudizi di una visione troppo eurocentrica. Di qui la sua tesi di fondo: «Le tradizioni religiose del mondo non rappresentano in primo luogo la ricerca che gli esseri umani fanno di Dio attraverso la loro storia, bensì la ricerca che Dio fa di loro». La teologia delle religioni doveva fare «una completa inversione di rotta: da una prospettiva incentrata sul cristianesimo a un’altra centrata sui rapporti personali di Dio con l’umanità in tutto il corso della storia della salvezza».
È quanto lui cercò di fare nel suo libro, che non considerava una «summa» ma il semplice (e imperfetto) inizio di un percorso. Sul quale – a ormai vent’anni di distanza e in un contesto in cui il tema del dialogo tra le religioni diventa sempre più centrale – sarebbe utile che la teologia ricominciasse a confrontarsi.