AL DI LA’ DEL MEKONG
«King Selfie». Nella rete, mendicanti di uno sguardo

«King Selfie». Nella rete, mendicanti di uno sguardo

Una casa di produzione cinematografica cambogiana sta realizzando una black comedy che vorrebbe prendere di mira quelle migliaia, o forse milioni di cambogiani, ossessionati dai selfie

 

“Tutto il mondo è un palcoscenico
E tutti, uomini e donne non sono che attori.
Hanno le loro entrate e le loro uscite;
Ciascuno nella sua vita recita diverse parti.”

(Shakespeare)

 

La casa di produzione cinematografica cambogiana Khmer Mekong Film’s (KMF), pur non avendo a disposizione fondi e strumenti paragonabili alle più mature e blasonate case cinematografiche di Hollywood e Bollywood, questa volta dalla sua può vantare un certo acume nell’aver individuato un soggetto cinematografico interessante, quello del selfie.  ‘King Selfie‘ è infatti il titolo dell’ultimo lavoro di KMF, in corso di ripresa a Phnom Penh in questi ultimi giorni di luglio. Appartiene al genere della ‘black comedy’ e vorrebbe prendere di mira quelle migliaia, o forse milioni di cambogiani, che ossessionati dai selfie, non sanno più farne a meno. La ‘commedia nera’ è un genere che tratta argomenti seri ed importanti, con una vena comica e talvolta satirica. I temi possono essere tra i più svariati: dalla morte alla religione, dalla guerra alla politica, dal sesso all’ossessione/dipendenza dai selfie. Appunto!

Una delle scene più interessanti al cuore della pellicola vede Sophea, il protagonista della commedia, interpretato dall’attore Khat Sombat Ketya, costretto suo malgrado da alcuni vecchi amici ad entrare in una sala degli specchi. Ossessionato dai selfie nella vita reale, Sophea viene bloccato nella sala e costretto a vedersi centinaia di volte riprodotto in maniera distorta dagli innumerevoli specchi posizionati all’uopo. L’effetto agli occhi di Sophea è quello di trovarsi di fronte a centinaia di immagini di sé, di selfie per l’appunto, che simultaneamente gli restituiscono altrettante inquadrature del suo io sempre indecente, inguardabile, a pezzi, ora grasso, ora basso, ora magro o allungato, gonfio o dimezzato, vittima del gioco degli specchi. Lui, così carino, così perfetto sempre impegnato a farsi selfie e ad ammirarsi, viene costretto a vedersi simultaneamente mille volte brutto, inguardabile, a pezzi…

L’intento del lavoro cinematografico è evidentemente satirico e prende di mira quest’abitudine così diffusa ovunque, non solo tra i cambogiani, di farsi selfie in ogni istante della giornata. Di guardarli e di postarli, di rifarli e di correggerli, per dare di sé un’immagine pulita, affascinante, convincente. Matthew Robinson, produttore esecutivo della commedia, la cui uscita è prevista per novembre, racconta che l’idea di affrontare un simile tema gli è venuta una sera in un locale di Phnom Penh mentre, bevendo un caffè, osservava come la gran parte dei presenti fosse impegnata a farsi selfie. Non è raro osservare in molti locali pubblici gruppi di amici, o famiglie intere, seduti allo stesso tavolo, eppure ciascuno impegnato con il proprio smartphone, ignaro della persona che ha accanto. La pellicola vorrebbe mettere a tema questo narcisismo autoreferenziale che riduce tutto al proprio io come centro del mondo, affamato di attenzione assoluta e costante, mai sazio di scattare e postare on line i propri contenuti (vuoti), fino a fare della vita un eterno palcoscenico con continui cambi d’abito e ruolo. Stiamo così diventando tutti mendicanti del web, senza più il tempo o la lucidità necessaria per percepire l’impoverimento relazionale e la frustrazione che ne segue.

Questa consuetudine al selfie, divenuta per molti un’ossessione, sembra riportarci ad una stagione della vita che gli psicologi dell’età evolutiva fanno coincidere con i primi mesi di vita, fino a due anni. La chiamano ‘fase dello specchio’ durante la quale nella mente del bambino si comincia a costituire il nucleo dell’Io e per questo ha bisogno di vedersi, di riconoscere sé stesso nell’immagine riflessa dallo specchio. Questo gli procura allegria, sicurezza, certezza di esistere. Impara a definirsi e a capire chi é attraverso la sua figura riflessa nella quale vede la forma’ chiara e sicura della propria unità psicofisica. Ma capirà ben presto però che lo specchio da solo non basta, così come non basterebbero miriadi di scatti, visti e rivisti, o miriadi di specchi, perché non sanno parlare, non sanno dirci chi siamo e se esistiamo veramente. In questa ricerca di esistere, di avere una forma apprezzabile, é piuttosto necessaria una relazione vera con qualcuno, come quella che all’inizio il bambino può avere con la madre. É lo sguardo della madre infatti il suo primo specchio, quel primo selfie nel quale si vede riflesso, accolto, amato in un esperienza positiva di allegria e approvazione. Di gioia e gratitudine di stare al mondo. È sempre lo sguardo dell’altro, tanto più di Dio, ad impreziosire la nostra vita, non un autoscatto ritoccato, o uno specchio in qualche boutique del mondo.

La commedia ha il pregio di mettere a tema un sintomo che si manifesta come una vera e propria coazione a ripetere infinite volte lo stesso gesto, quello del selfie, e che in quanto sintomo tradisce una malattia dell’anima ben più profonda. Chi siamo, a chi apparteniamo, chi ci fa sicuri che la vita è bella e che siamo degni di viverla? Mi chiedo che cosa manca anche qui in Cambogia perché i fanciulli, e non solo, possano vivere l’esperienza di essere riconosciuti, voluti e amati senza essere costretti a mendicare attenzioni e complimenti, postando immagini che alla fine li ritraggono sempre soli? È vero quello che scrive la poetessa Mariangela Gualtieri, e cioè che “in nessuna foto noi veniamo / nessuna telecamera riprende per intero / questo essere nostro che slegato si estende / tutto impastato di infinità”. Per questo i selfie non bastano.