Elvira Hempel, internata in istituto e poi in manicomio, è sopravvissuta alla ferocia dell’eugenetica nazista. Ora la sua storia è diventata un libro, alla vigilia della Giornata della Memoria del 27 gennaio
Si chiamava Aktion T4, dove la T stava per Tiergartenstrasse, la via del Giardino zoologico di Berlino, e 4 era il numero civico. Negli anni Trenta, questo era l’indirizzo dell’ente pubblico tedesco che si occupava di salute e di assistenza sociale. Siamo sotto il regime nazista di Adolf Hitler, che si è macchiato di uno dei peggiori crimini della storia dell’umanità, il genocidio di sei milioni di ebrei, che ogni anno, il 27 gennaio, ricordiamo nel Giorno della Memoria. Ma non si è limitato a questo: nei campi di concentramento sono finiti anche omosessuali, cristiani e testimoni di Geova, oppositori politici e zingari. Moltissimi di loro hanno pagato con la vita per le loro idee, per l’orientamento sessuale o per l’appartenenza etnica e a tutto diritto fanno parte delle vittime dell’Olocausto. E poi, spesso dimenticate, ci sono le persone eliminate con il programma T4 dal personale medico che avrebbe dovuto prendersi cura della salute delle persone e non ucciderle. Aktion T4 prese di mira “le vite indegne di essere vissute”: portatori di handicap, malati psichiatrici, persone affette da malattie genetiche non guaribili. Dal 1939 al 1945, furono uccisi oltre 300 mila neonati, bambini, ragazzi e adulti nel territorio del Reich tedesco. In nome dell’eugenetica, che puntava alla “purezza della razza”: si doveva arrivare a un popolo di individui prestanti e intelligenti, ovviamente sani e ariani. C’era anche una motivazione economica: lo Stato non voleva farsi carico di questi esseri umani “improduttivi”.
In questa follia, non furono risparmiati neppure i bambini. La storia di Elvira Hempel Manthey (1931-2014) rappresenta una testimonianza preziosa. Come racconta nella sua autobiografia, intitolata “La piccola Hempel” pubblicata ora anche in italiano da Utet (pp. 224, euro19), Elvira ha conosciuto l’inferno dei manicomi e degli istituti per minori per sette anni della sua infanzia e ne è uscita viva. Era una bimba sveglia e intelligente, quindi i suoi ricordi sono fondamentali per capire che cosa succedeva. La sua sfortuna? Essere nata in una famiglia disagiata. Il padre Otto è «un mezzo furfante, il più grande mascalzone mai esistito», scrive lei stessa. Un ubriacone dedito al furto e uno sfruttatore di prostitute, che però ha avuto la bella idea di sposarsi. La madre, che Elvira descrive come una donna dura nei suoi confronti, è anche lei una vittima, perennemente incinta. «Ogni anno un fratello nasceva e uno moriva». Nel 1933, quando l’autrice ha due anni, lo Stato tedesco emana una legge per la prevenzione di prole con malattie ereditarie. Questa norma impone la sterilizzazione forzata delle persone affette da debolezza mentale, schizofrenia, patologie maniaco-depressive, epilessia, corea di Huntington, cecità o sordità genetica, alcolismo. Le vittime di sterilizzazione forzata, fra il 1934 e il 1940, furono 350 mila. Il passo successivo, dal 1939 in poi, fu la loro eliminazione.
Elvira e i suoi fratelli sono poveri, vivono di stenti e di carità, e quando la madre disperata si rivolge ai servizi sociali per ottenere aiuto, il risultato non è quello sperato. Non le danno soldi o sussidi, ma le portano via tre figli maschi che finiscono in un orfanotrofio. Per il regime nazista, i genitori Hempel sono “degenerati”, asociali incapaci di adattarsi alle regole di vita della collettività, in particolare Otto che beve, non lavora, non mantiene i figli e ha un comportamento criminale. Nel 1936, all’età di quattro anni, anche Elvira viene sottratta alla madre e finisce in un istituto dove i piccoli sono maltrattati e picchiati. Due anni dopo, in una visita medica sbrigativa, viene dichiarata “debole di mente” e trasferita in un manicomio. La bambina in realtà è perfettamente sana: i malanni sono legati alla sua condizione di povertà, e la diagnosi del dottore nazista è condizionata dalle sue origini e dal padre alcolizzato, peraltro abilissimo nel sottrarsi a possibili provvedimenti nei suoi confronti. Nel manicomio di Uchtspringe, Elvira ritrova la sorella più piccola, Lisa, anche lei portata via alla madre.
Inizia qui la parte più sconvolgente del racconto. Hempel vive circondata da altri bambini disabili e ogni giorno il “signore dei morti” passa con la sua carretta nei reparti a portare via i cadaveri. Elvira capisce al volo che quelle morti sono collegate alla presenza di un’infermiera con una siringa piena di un liquido che, una volta iniettato, uccide. Ma non si perde d’animo. Per salvarsi, cerca di rispondere al meglio possibile ai test d’intelligenza, ma non è facile per lei che non va a scuola, non sa leggere e scrivere, e nei suoi primi anni di vita nessuno si è preso la briga di insegnarle qualcosa. Questa lacuna educativa perseguiterà Elvira per tutta la vita, facendola sentire sempre in difetto. Dopo vari spostamenti, la piccola si trova a fronteggiare un gruppo di medici che ha il potere di decidere del suo destino. Miracolosamente, Elvira si salva rendendosi conto di quanto è accaduto solo da adulta. Non oltrepasserà la soglia della camera a gas, dove invece finisce la sua sorellina Lisa di cinque anni.
Il resto del racconto spazia dal ritorno alla libertà della protagonista fino alla difficile adolescenza in una zona della Germania occupata dai russi, poi all’età adulta. Nel 1986, guardando una trasmissione televisiva, Elvira riconosce il carcere in cui è stata prigioniera. Il Muro non è ancora caduto e la donna, che vive all’Ovest, si rivolge al leader politico più importante all’Est, Erich Honecker, che le fa avere una copia della sua cartella clinica di Uchtspringe – allora nella DDR – dove era stata giudicata affetta da ritardo mentale ereditario. Inizia così la lotta di Elvira Hempel per ottenere la cancellazione di questa diagnosi errata e pretestuosa e per il rispetto della sua dignità. Questa parte del libro è particolarmente interessante perché dimostra le difficoltà che la Germania attuale ha avuto nel fare i conti con il suo passato nazista. Paradossalmente, la condanna della Shoah è stata chiara e definitiva, mentre il caso Hempel si è trascinato per anni nelle pastoie burocratiche.
Elvira è scomparsa nel 2014 e questo libro, scritto insieme al marito Heinz Manthey, è una lettura importante, perché fa memoria non solo della sua storia, ma di tutte quelle persone deboli e in situazione di difficoltà, che il nazismo ha voluto sradicare. Sterilizzazioni, camere a gas, detenzioni arbitrarie in manicomio, come nel caso di Elvira e di Lisa, hanno portato alla morte oppure segnato per il resto della vita tanti cittadini tedeschi. L’incubo finisce nel settembre del 1941, quando l’operato di Aktion T4, che doveva restare segreto, trapela. E risuona la coraggiosa voce del vescovo Clemens August Von Galen: «Hai tu, ho io il diritto alla vita, solo finché siamo produttivi, ritenuti produttivi da altri? Se si ammette questo principio, guai a tutti noi quando saremo vecchi, guai ai soldati mutilati, guai agli invalidi del lavoro. Chi è al sicuro della sua vita?». Nessuno, mai, se è un regime a decidere chi può restare vivo e chi no.