In dialogo con Daniele Mencarelli, poeta e scrittore originalissimo, sempre in bilico tra domande di senso e tensione verso l’oltre. Mercoledì 10 marzo alle ore 21 con lui una diretta streaming sul canale YouTube del Centro Pime sul suo nuovo libro «La croce e la via» e il bisogno di salvezza nel tempo del Covid-19
La croce, la via, la salvezza. Nei titoli degli ultimi due scritti di Daniele Mencarelli è indicato quasi un percorso: di caduta e sofferenza, di perdono e resurrezione. Diversissimi tra loro, “Tutto chiede salvezza” (Mondadori, 2020) e “La croce e la via” (San Paolo, 2021) – il primo un romanzo autobiografico, il secondo una sorta di via crucis a cavallo tra prosa e poesia – sono tuttavia impregnati di temi, sentimenti, provocazioni e slanci che rinviano l’uno all’altro. Spesso lasciano spiazzati. Sempre suscitano domande. Un percorso al tempo stesso laico e religioso, in cui l’autore mette a nudo se stesso, ma evoca anche le grandi questioni che interpellano l’uomo nella sua interiorità, nel rapporto con l’altro, nell’anelito verso l’oltre; in cui scandaglia anche la realtà, il nostro presente e ne mette a nudo contraddizioni e derive, ingiustizie e miserie, dove «la verità è tanto intollerabile da dover essere crocifissa». Ma dove c’è anche possibilità di una fratellanza molto umana. E di resurrezione: «Vita eterna nella gioia / e giochi di fratelli senza paura, / ecco la terra che ti promisi / il regno dove nulla soffre / e a morire è solo la morte».
Daniele Mencarelli, “La croce e la via” è una sorta di via crucis laica. O meglio, di doppia via crucis, la prima in prosa, la seconda in poesia…
«La prima parte è più un passaggio, con toni molto forti. Si gioca su questa sfida ed è volutamente spiazzante, provocatoria. Nel suo apparente estremismo, ci sono in realtà storie che tutti hanno vissuto. È una sorta di contro-via crucis, per questo andava scritta in prosa. Mentre tutte le grandi storie di tutti i tempi chiedono la poesia. Anche nella prima parte, tuttavia, la scrittura è molto ritmata come se aspirasse a essere poesia».
Il protagonista è un grande manager senza nome; i suoi obiettivi sono il successo e la vittoria a tutti i costi…
«Volevo mettere a nudo l’enorme ipocrisia che regna un po’ ovunque rispetto alle divisioni e alle diseguaglianze che esistono ancora nel mondo. Un sistema che continua a essere ciò che è sempre stato nel corso dei secoli, la storia di uomini di potere che fanno di tutto per essere visti, per essere invidiati… Ma se si guarda al fondo della loro esperienza umana, è la storia di una vittoria cieca».
Una vittoria «vuota», senza nulla, un abisso senza senso, scrive…
«Quest’uomo ha vissuto nel mito di se stesso, sino ad arrivare al limite. Al limite della realtà e della verità. Questo limite lo porta finalmente a prendere atto di non aver mai ascoltato il dolore, di averlo combattuto e seppellito sotto mille obiettivi».
Proprio in questo dolore, tuttavia, con cui si conclude la XIV stazione della prima parte, si apre una «visione chiara». Spesso il dolore è al centro dei suoi scritti. Come mai?
«Il dolore depura lo sguardo dai falsi obiettivi. Il dolore urla qualcosa che non si è mai voluto ascoltare veramente, una possibilità di sguardo nuovo verso se stessi, verso quel vuoto che riempiamo con cose senza senso».
Anche il perdono sembra aprire a uno sguardo diverso…
«Il perdono per me è una pratica troppo umana. Perdonare gli altri deve essere il rovescio della capacità di perdonare se stessi. Che a volte, almeno per me, è ancora più difficile. Perché significa innanzitutto guardare a sé con occhi diversi».
Che croce è, dunque, quella che porta quest’uomo?
«È una croce che non libera. È una croce del mondo. Che non arriva dopo una vera via. È la croce di un uomo che porta su di sé tutti gli elementi e gli emblemi della vittoria. Ma la vittoria, alla fine, è la sua croce».
Nella seconda parte – la via, quella del Calvario – la croce diventa passaggio verso l’oltre, «da albero a croce, da croce a nido». C’è un respiro diverso, non solo perché la prosa lascia il posto ai versi…
«Nella seconda parte, nulla e nessuno sono risparmiati. La via crucis è un’esaltazione dell’umano da tutti i punti di vista: dolore, sacrificio, perdono… Ma tutti sono portati dal passaggio di Gesù a guardare oltre. Un oltre che però viene illuminato dal suo esempio, dalla sua grandezza. Gesù sa accogliere in ognuno un elemento di conversione. La passione di Cristo ha convertito. E il tema della morte è il coronamento rispetto a questo oltre».
In questo oltre c’è anche una dimensione di salvezza? E come la intende?
«La via crucis segue due percorsi: il primo non offre nessuna salvezza, né quella umana né quella di Dio; il secondo, entrambe. C’è un bisogno di giustizia del mondo, che si trova anche nell’esempio cristiano. C’è il desiderio di una compagnia degli uomini di fronte al dolore, che non salva dalla morte ma, appunto, accompagna. In questa fratellanza ci vedo una salvezza molto umana. C’è qui il tema degli affetti, dall’amicizia, che è la prima forma di salvezza nel mondo e che ci appartiene in quanto esseri umani. Questa salvezza non salva dalla morte, ma ci toglie dalla solitudine del dolore. E però c’è anche la speranza in un’altra forma di salvezza. Quella della fede scommette sull’aldilà».
Anche il suo libro “Tutto chiede salvezza” è quasi un grido contro la solitudine e un inno alla relazione di salvezza nel mondo come sinonimo di fratellanza.
«Ho vissuto molto in solitudine. Alla lunga può diventare un po’ tossico. La fratellanza aiuta a osservare il dolore con maggiore lucidità, la gioia dell’incontro attutisce, anche se per poco, il peso dell’esistenza, la burrasca che rimbomba nella scatola cranica e che genera ansia, tristezza, speranza…».
E paura?
«La paura resta un demone. È la forma più riuscita del male. Il rischio è di darla per sconfitta. Ma rinasce ogni giorno. La paura presume di sospendere il nostro rapporto con la realtà. È l’antitesi della ricerca. Mette un diaframma che ci esclude dalla realtà. L’ho data spesso per sconfitta, ma agiva in forme nuove che non avevo mai codificato e che non mi permettevano di vedere in quali tranelli stavo per cadere. Oggi vivo da “sentinella”».
Che cosa significa?
«Oggi ho trovato equilibrio. Domani non so. Ma continuo nella ricerca. Ricerca spirituale e di senso, che poi è quello che ho sempre fatto e che mi ha portato a soffrire, ma anche a scrivere. Da circa tre anni sto vivendo un periodo molto bello, in cui non faccio che dialogare su temi attorno a cui, sin da ragazzino, mi facevo continuamente delle domande. Ma solo con me stesso. Ho sempre vissuto in questa dimensione della ricerca. In realtà non ho mai fatto altro. A lungo, però, l’ho fatto in solitudine».
Lei si definisce un «aspirante credente». In che senso?
«Cerco di stabilire elementi di comunione con Dio».
I LIBRI
Daniele Mencarelli è poeta e scrittore, autore di una trilogia autobiografica cominciata con “La casa degli sguardi” e proseguita con “Tutto chiede salvezza” che lo scorso anno ha vinto il Premio Strega Giovani. Si concluderà con l’uscita, il prossimo 12 ottobre, di “Sempre tornare” pure questo da Mondadori.
È invece stato pubblicato da San Paolo “La croce e la via”, una “doppia” via crucis in cui alla perdita di sé che caratterizza il cammino di Cristo verso il Calvario fa da contraltare il cammino dell’uomo moderno verso la realizzazione attraverso il successo e la fama.