La «laurea del futuro»? Oggi trova ancora molte porte chiuse

La «laurea del futuro»? Oggi trova ancora molte porte chiuse

Da una decina d’anni l’ordinamento italiano ha una Laurea in Lingue Straniere per la Cooperazione Internazionale. Ma resta esclusa come titolo di studio nei concorsi pubblici che hanno a che fare con la società multiculturale (aperti invece a chi si laurea in discipline come Statistica o Scienze della comunicazione…)

 

Quando, e ormai si parla di quasi una decina d’anni fa, la mia generazione si lanciava in quell’avventura che comincia con un’immatricolazione e finisce con una corona d’alloro, i corsi di laurea in Mediazione Linguistica e Culturale (Laurea Triennale) e di Lingue per la Comunicazione e la Cooperazione Internazionale (Laurea Magistrale) erano una novità.

Nati come percorsi di interfacoltà tra Lettere e Filosofia e Scienze Politiche, nascevano con l’intenzione di preparare laureati in grado di sviluppare la propria professionalità in una società multiculturale e mutevole: di qui la combinazione dello studio delle lingue (in genere due, da mantenere lungo tutto il percorso) con lo studio delle relazioni internazionali, del diritto, della storia contemporanea, della sociologia delle migrazioni.

Agli esterni era sempre difficile spiegare che cosa si stesse studiando, o in che cosa ci si fosse appena laureati: un po’ lo è ancora oggi, per quanto espressioni come “mediazione linguistico-culturale” e “cooperazione internazionale” suonino forse un po’ meno strane. Ma negli anni della novità assoluta, davvero, era una pena: lo sconosciuto che, ad una serata, credendo di porti una domanda innocente, ti si rivolgeva con un “E tu, che cosa studi?”, ti metteva in condizioni di dover determinare istantaneamente se rispondere “Lingue per la comunicazione e la cooperazione internazionale, sai è un’interfacoltà tra Lettere e Filosofia e Scienze Politiche, scegli due lingue, sai io tipo faccio ebraico e russo, e poi ci sono esami di…” (e nel mentre il tuo interlocutore finiva la sua birra, ne ordinava un’altra, finiva pure quella e già si sentiva chi iniziava a dire “Beh, noi andremmo…”) o se risolverla con “Eh…una roba tipo Lingue”. La prima risposta poteva rappresentare una buona prova per capire se la persona era davvero interessata a parlare con te, ma in genere si preferiva essere clementi e offrire la seconda. Qualche rara volta, l’interlocutore si rivelava a sorpresa proveniente dal tuo stesso mondo, e una volta appurato ciò si poteva conversare con le sigle “Med” e “Lin”, mentre il cuore ti si scaldava di gratitudine per l’insperata epifania di affinità elettive. In ogni caso, chi non faceva parte degli eletti ma aveva sufficiente pazienza per sorbirsi la risposta lunga, generalmente chiudeva l’argomento con un’esclamazione incoraggiante: “Fai bene, è la laurea del futuro!”

I corsi di laurea di Med (Classe L-12) e Lin (classe LM-38) hanno una struttura fortemente multidisciplinare, per questo il tipo di competenze acquisite da ogni laureato dipende molto dal tipo di piano di studi che si costruisce: più orientato alla traduzione specialistica, alla linguistica, all’insegnamento delle lingue straniere o della lingua italiana agli stranieri se si segue il curriculum “letterario”, oppure più tendente verso sbocchi nel terzo settore, nella cooperazione, nelle imprese e nelle istituzioni se lo studio delle lingue è inserito nel curriculum più “economico-politico” (che mi pare si chiami ancora come quando mi sono laureata io, nel 2013, cioè “Integrazione e comunicazione interculturale per istituzioni e imprese”). Alcuni insegnamenti possono variare da ateneo ad ateneo, ma in sostanza la principale diramazione del corso è questa.

Partendo proprio dalla presenza di questa (per chi la sceglie) declinazione “politica” di Lin, vorrei fare una riflessione. La classe di laurea LM-38, con rare eccezioni, è perennemente esclusa dai concorsi pubblici banditi dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale e dal Ministero dell’Interno. In alcuni casi ho potuto comprendere (pur non condividendola fino in fondo) la reticenza ad aprire ad un percorso di studi “ibrido”. Bandi di concorso i cui titoli di studio ammessi alla partecipazione sono pochi e “tradizionali”: Relazioni Internazionali, Scienze Politiche, Giurisprudenza. Non sono forse d’accordo, ma ne capisco la logica.

Logica che invece sembra davvero introvabile nell’accozzaglia di “Titoli di studio ammessi” dal recente bando di concorso pubblicato il 2 maggio dal Ministero dell’Interno, per l’assunzione di 250 funzionari da destinare alle Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale e alla Commissione nazionale per il diritto d’asilo. La laurea LM-38, tanto per cambiare, non è tra quelle ammesse, e saremmo anche pronti a farcene un’ennesima rassegnata ragione, se non fosse che tra quelle ammesse compaiono “Editoria e giornalismo”, “Comunicazione d’impresa” “Scienze della Comunicazione”, “Statistica”.

Con tutto il rispetto e la consapevolezza che tutto è relativo e interconnesso e che chi si prepara adeguatamente può benissimo superare le prove anche se in università ha studiato tutt’altro, ma che cos’hanno a che fare queste lauree col settore migrazione, diritti e rifugiati? In che modo fornirebbero una migliore preparazione rispetto alla laurea in Lingue per la Cooperazione Internazionale?

Si legge sul bando di concorso che le materie delle prove d’esame consistono in diritto pubblico e internazionale, storia contemporanea, geografia politica ed economica, lingua inglese. I laureati della LM-38 che hanno seguito il curriculum “politico” sono stati preparati più che bene in queste discipline. Perché escluderli? Più in generale perché, proprio ora che si parla in modo sempre più insistente di superare il concetto di migrazione come fenomeno emergenziale e di affrontarne i fenomeni con professionalità, lo Stato non apre a chi si è formato seguendo un percorso nato proprio con questo intento?

L’argomento migrazione, diritti, integrazione, declinato in tutte le sue possibili sfaccettature, è una costante negli insegnamenti di Med e Lin. Penso agli esami sostenuti in Storia Contemporanea, Diritto Internazionale Umanitario, Organizzazione Internazionale, Sociologia delle relazioni interculturali, per fare solo pochi esempi. Penso a quanti di noi hanno affiancato alla preparazione accademica tirocini, volontariato e altre esperienze professionalizzanti nella realtà della migrazione presso scuole, enti pubblici, organizzazioni no-profit, centri d’accoglienza. Penso alla mia collega Ilaria la cui tesi, vincitrice 2016 del Premio Teresa Sarti – Emergency, è il frutto di lunghe e impegnative giornate dedicate all’ascolto delle storie dei richiedenti asilo a Como. Seriamente, quale preparazione può avere un laureato in Statistica o Scienze della Comunicazione in tema di rifugiati e diritto d’asilo?

La questione, vorrei che si capisse, non si limita a questo singolo bando. Mi sono chiesta infatti quale fosse l’elemento comune di tutti i concorsi pubblici che da quando mi sono laureata attirano la mia attenzione (questo mi interessa, questo lo posso fare!) per poi lasciare il posto alla delusione (ah no, non c’è la mia laurea!): l’elemento comune è l’esclusione dalla dimensione pubblica e politica, dalle opportunità di change-making.

I concorsi che ammettono la laurea in Lingue per la Cooperazione Internazionale si riferiscono perlopiù ad assunzioni di insegnanti, traduttori e bibliotecari. Sembra insomma, che l’unico sbocco occupazionale che lo Stato sia disposto a concedere ai laureati della LM-38 sia quello della cultura. Senza negare che ci sia chi vuole trovare e trova effettivamente impiego in quest’ambito, né togliere nulla al suo valore e alla sua bellezza, bisogna mettersi in testa che chi (mi sento di parlare per la maggior parte degli studenti e laureati) intraprende questo percorso non lo fa per lavorare in una biblioteca. Lo fa per essere parte attiva di questa società multiculturale, di questo mondo che sfida in continuazione la nostra percezione dei confini e dei punti di riferimento. E no, non solo come traduttore o linguista, se no avrebbe fatto la Scuola per Interpreti e Traduttori, o si sarebbe iscritto a Lingue e Letterature Straniere. «È la laurea del futuro», dicevano a me quando mi sono laureata nell’aprile 2013, e lo ripetono ai laureandi e laureati di adesso. Ma il futuro quando arriva?

 

Silvia Gambino si è laureata nel 2013 in Lingue e Culture per la Comunicazione e la Cooperazione Internazionale presso l’Università degli Studi di Milano.
Dopo la laurea, ha vissuto in Israele due anni per seguire il Master in Peace & Conflict Management Studies all’Università di Haifa. Dopo un anno di Servizio Civile presso lo Sportello Unico Immigrazione della Prefettura di Milano, attualmente continua a collaborarvi come mediatrice culturale.