IL BELLO DELLA FEDE
Jyoti Sahi nasce a Pune, nello Stato indiano del Maharashtra, nel 1944. La sua vasta produzione artistica, che spazia dalla pittura all’intaglio del legno, dalla realizzazione di batik, vetrate, mosaici alla progettazione di spazi architettonici, è interamente dedicata alla costruzione di un ponte tra induismo e cristianesimo. Il linguaggio di questa originale forma d’arte è costituito da una grande ricchezza di elementi espressivi appartenenti al mondo indiano, simboli religiosi, posizioni e gestualità yoga, dettagli legati alla cultura popolare e tribale, riferimenti alla sacralità della natura, alla danza e alla musica come forme di preghiera, con l’esito di una piena inculturazione del Vangelo nel contesto indiano.
Figlio di un indù e di un’inglese cristiana, Jyoti Sahi coltiva fin da piccolo l’amore per l’arte e la definizione di un’identità frutto della complessità. La sua vocazione artistica e spirituale matura in Inghilterra, dove si reca a 15 anni per studiare arte. Qui incontra il monaco benedettino Dede Griffiths, a cui si ispirerà per fondare, una volta tornato in India, un proprio ashram, un luogo di meditazione e di preghiera, e una dimora per gli artisti e le loro famiglie. L’ashram, nel villaggio di Silvepura presso Bangalore, mutua la sua forma dall’induismo, ma è calato in un contenuto assolutamente cristiano: il suo centro spirituale è una cappella attorno a cui si svolgono la pratica artistica e la vita comunitaria.
In questo luogo di pace e spiritualità Sahi, cattolico, utilizza l’arte come una forma di esegesi per presentare i contenuti della fede cristiana in modo comprensibile alla cultura indiana. Così nelle sue opere Cristo è rappresentato con un tamburo con cui scandisce il ritmo dell’universo ed esprime la gioia creativa, o assume la posizione della divinità indù Shiva, il signore della danza; Maria è spesso raffigurata dentro un termitaio, considerato in India l’orecchio della terra, un luogo che custodisce il sacro come un tempio. Il lungo percorso artistico di Jyoti Sahi utilizza inizialmente un linguaggio visuale molto ricco di simboli per poi passare in un secondo momento a una forma espressiva più narrativa, che si immerge nella cultura popolare dei tribali e dei dalit, i fuori casta. L’arte infatti nelle sue intenzioni non può essere solo una pratica elitaria e contemplativa, ma deve anche mirare alla pace e costituire un’esperienza universalizzante, aldilà delle caste e delle singole esperienze, in cui l’umanità tutta e il divino si incontrano.