Parla June Bellamy, donna cosmopolita di origini europee e asiatiche, che nel suo libro “L’anima delle spezie” conduce alla scoperta di sapori esotici e profumi che sanno parlare al cuore. E aiutano a capire le tradizioni dell’Altro
Per secoli, il pepe, i chiodi di garofano e in generale le spezie che oggi troneggiano sullo scaffale di qualsiasi supermercato hanno rappresentato agli occhi degli Occidentali un oggetto del desiderio. Gli effluvi di incenso avvicinavano al divino: non è un caso che i Re Magi avessero portato le resine cristallizzate di questa pianta al Bambin Gesù, come tributo alla sua regalità. La noce moscata era un toccasana per poter gustare la carne quando non esistevano i frigoriferi. Gli antichi Egizi importavano dall’Oriente cumino, cannella e cassia per imbalsamare i corpi dei Faraoni, mentre i Romani impazzivano per il pepe, che si riteneva fosse curativo anche i raffreddori. Le spezie hanno segnato la storia culturale dell’Occidente e hanno scatenato lotte e guerre per il controllo delle terre da cui provenivano. Ma anche in Oriente hanno lasciato un segno indelebile nella cultura e nella cucina dei luoghi d’origine.
A raccontare questa storia affascinante, abbinando cultura, ricette e ricordi personali, è June Bellamy, autrice di L’anima delle spezie (Giunti, 22 euro). Un libro davvero originale, come la sua autrice, donna cosmopolita, che unisce nel suo dna l’Occidente e l’Oriente. Classe 1932, figlia di padre australiano e di una principessa birmana, June ha vissuto in India da profuga durante la Seconda Guerra Mondiale, presso il maharaja di Kashipur, marito di sua zia. Si è poi sposata con un italiano che lavorava per l’Organizzazione Mondiale della Sanità e insieme hanno vissuto tra le Filippine, la Siria, Ginevra e l’Italia. È anche tornata in Birmania per un breve periodo e ha soggiornato in Cina e a Hong Kong. Oggi abita a Firenze dove, presso il suo studio, tiene corsi interculturali di cucina, fra Oriente e Occidente, rivolti a italiani e stranieri. «Adoro soprattutto Napoli», racconta, dove è diventata di casa grazie al marito. Un’esistenza speciale, la sua. «Sono fiera e grata di aver potuto vivere in tanti luoghi prendendomi il tempo necessario per assaggiare, capire, gustare. Oggi si ha troppo e tutto scorre troppo in fretta».
Le ricette e i sapori di cui parla nel suo libro sono soltanto quelli dei Paesi che ha conosciuto in prima persona.
La sua attrazione per il mondo delle spezie e della cucina è iniziata precocemente?
«Fin da piccola, la cucina ha sempre esercitato un grande fascino su di me. La casa dei miei genitori in Birmania era in stile occidentale. Ma quando andavo dai miei zii a Mandalay, a 7 anni, l’atmosfera era birmana. Nella cucina, separata dalla casa, la cugina di mia madre preparava in una pentola di terracotta il riso che dava poi ai monaci. Ricordo che metteva sempre un bastoncino di legno dritto fra il fuoco e la pentola, perché le formiche o altri insetti potessero arrampicarsi e salvarsi dalle fiamme. Quanto ai profumi, l’olfatto per me è sempre stato importante. Gli altri bambini erano attratti dalla musica, dalla danza, dai vestiti… Io ero conquistata dagli odori! Anche da adulta, a Napoli o a Firenze, il profumo del caffè tostato mi induce a fermarmi».
Durante la guerra, la vostra famiglia si è spostata in India. Qui ha conosciuto un cuoco speciale…
«Sì, era il cuoco dei miei zii ed era un brahmino. All’epoca avevo circa 9 anni e continuavo a gironzolare intorno alla cucina. Era il palazzo di un maharaja e nelle cucine ci entravano solo gli addetti. Lui sapeva chi ero, aveva notato la mia curiosità e mi aveva consentito l’ingresso. Come racconto nel libro, ero colpita dalle cordicelle bianche che aveva sempre annodate agli alluci dei piedi. Poiché continuavo a guardarle, un giorno decise di spiegarmi cosa fossero. Servivano a evitare che gli spiriti o le energie negative entrassero nel suo corpo dal pavimento, contaminando il cibo. Il cuoco aveva una grande importanza: era il responsabile della salute della famiglia, attraverso il cibo che preparava».
In molte tradizioni, il cibo ha un valore curativo. Un valore che in Occidente, nel tempo, è andato perduto.
«In grandi culture, come quella indiana e cinese, dove la scrittura consentiva di tramandare il sapere, c’è sempre stata grande attenzione al valore curativo del cibo. In India, esistevano prescrizioni precise, per esempio, per gli anziani, e le spezie erano strettamente legate alla salute, in rapporto con le stagioni, le loro caratteristiche, la quantità. In Cina, il dim sum (piccolo piatto) è nato nelle case di salute, ristoranti speciali dove ci si recava per queste pietanze che miglioravano la salute».
Il suo libro è ricco di curiosità e spiegazioni sulla cucina orientale. Dal ghee, il burro purificato, ai dip, le salse; dalle differenze di preparazione del riso ai modi di mescolare la pasta o di usare le miscele di spezie. Colpisce la commistione dei sapori, per esempio pesce con carne. Perché in Oriente è accettata?
«Perché le porzioni sono sempre più piccole che in Occidente. Ma è possibile solo c’è una compatibilità. Il pesce può accompagnarsi con il maiale, per esempio: entrambe le carni sono bianche e dolci. Ma non con la capra o il bufalo, carni rosse. Ogni sapore deve completarsi con l’altro».
Il libro si apre con tre spezie: incenso, cinnamomo e sesamo. Perché ha voluto cominciare proprio da queste tre?
«Perché sono le più legate alla vita dell’uomo. L’incenso, che abbiamo in mente solo come profumo, è sempre stato connesso al divino e alla nascita, ma ha anche un uso alimentare. In India, insaporisce risi e dolci: il contenitore con il cibo viene posto sopra al fumo e il profumo che si sprigiona pervade la pietanza. Il cinnamomo, caldo e inebriante, è associato all’amore e alla passione. Il sesamo nero, che in India si ritiene generato da una lacrima di Vishnu, è connesso ai riti legati alla morte e al suo dio, Yama».