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Quando un padre diventa un aguzzino

Il film iraniano “Il seme del fico sacro” di Mohammad Rasoulof, girato in segreto sfidando le autorità, racconta i dilemmi (anche familiari) di un giudice al servizio del regime degli ayatollah nei terribili giorni del 2022, quando esplose la rivolta “Donna Vita Libertà”. Dal 20 febbraio nelle sale italiane

Sono trascorsi più di due anni da quei giorni di settembre 2022 in cui esplose in Iran la rivolta “Donna Vita Libertà”, in seguito alla morte della ventiduenne Mahsa Amini, arrestata per aver indossato l’hijab in modo scorretto secondo la polizia religiosa e deceduta probabilmente per emorragia cerebrale dopo un pestaggio. Le proteste sull’obbligo del velo da sempre hanno dato filo da torcere al regime teocratico degli ayatollah. Oggi però le giovani generazioni sono sempre più insofferenti e sfidano le autorità rivendicando libertà di pensiero e di manifestazione pacifica, pur sapendo di rischiare il carcere e persino la pena di morte. In prigione, le “confessioni” secondo Amnesty International vengono estorte con maltrattamenti e torture, compresa la violenza sessuale. Contro queste giovani donne “nemiche” dell’islam lo stato schiera una nutrita task force: polizia per la sicurezza morale, polizia municipale, uffici della procura, tribunali, ministero dell’Intelligence, guardiani della rivoluzione – comprese le forze basiji – e agenti in borghese. Come se le sorti della moralità del Paese dipendessero da un ciuffo di capelli di una qualsiasi quattordicenne che fuoriesce da un foulard.

Quando è scoppiata la rivolta “Donna Vita Libertà” il regista iraniano Mohammad Rasoulof si trovava in prigione per aver firmato una petizione. Da dietro le sbarre, ha seguito l’estendersi delle proteste maturando l’idea di dedicare un film a quanto stava succedendo. È nato così il progetto del lungometraggio Il seme del fico sacro, vincitore a Cannes 2024 del premio speciale della Giuria e dal 20 febbraio nelle sale italiane.

«Tutto è iniziato quando un addetto importante della prigione di Evin mi ha confessato di volersi impiccarsi davanti all’ingresso della prigione – ha dichiarato il regista -. Soffriva di un profondo rimorso di coscienza, ma non aveva il coraggio di liberarsi dall’odio che nutriva per il suo lavoro». Chissà, quest’uomo deve aver ispirato al regista il personaggio di Iman, un investigatore statale proveniente da un paesino remoto, che aspira a fare carriera e a offrire alla moglie Najmeh e alle figlie Rezvan e Sana una vita migliore. All’inizio del film, vediamo questa famiglia così normale e ordinaria, che vive in un appartamento a Teheran, festeggiare la promozione del padre a giudice istruttore e sognare una casa più bella. Najmeh, come il marito, sono nati dopo la Rivoluzione del 1979. La donna è perfettamente calata nel suo ruolo di moglie solerte di un impiegato del regime e di sorella di un militare. Senza essere fanatica come una guardiana della rivoluzione, istruisce le figlie al rispetto delle regole e delle apparenze. Soprattutto ora, dopo la promozione del padre, le ragazze devono essere impeccabili in pubblico e non suscitare alcun pettegolezzo negativo.

Nel suo nuovo ruolo, Iman si scontra subito con un dilemma: il pubblico ministero chiede che avvalli la condanna a morte di un giovane per offesa a Dio, senza aver neppure letto il lungo fascicolo che lo riguarda. Il suo predecessore si è rifiutato ed è stato licenziato. È il bivio che determinerà ogni successiva scelta di Iman: allinearsi al regime e alla volontà dei capi, costi quel che costi, diventerà il suo imperativo. Gli viene data anche una pistola per potersi difendere, visto che il suo ruolo gli procurerà nemici. Nel frattempo, a Teheran scoppia la rivolta a seguito dell’arresto e della morte di Mahsa Amini. I cellulari di Rezvan, Sana e della loro amica Sadaf restituiscono immagini e video agghiaccianti degli attacchi della polizia contro i manifestanti. All’università, Rezvan scampa per un colpo di fortuna alle pallottole dei poliziotti, ma la sua amica Sadaf rimane ferita. La figlia la porta a casa e anche Najmeh vive il suo dilemma: se aiuta la ragazzina, mette a rischio la carriera del marito. Se non lo fa, si mette contro le figlie. Najmeh sceglie la dissimulazione, con il marito tace ma quando Sadaf viene arrestata cerca a modo suo di aiutarla.

A questo punto della storia, l’equilibro della famiglia salta di fronte a un evento catastrofico: la pistola del giudice Iman sparisce, proprio fra le mura di casa sua. L’uomo rischia tre anni di galera e il crollo di tutti i suoi sogni di carriera. La ricerca dell’arma poco alla volta si tramuta nella ricerca della colpevole. Sul banco dei sospettati Iman mette moglie e figlie. Coinvolge un amico poliziotto e psicologo che conduce gli interrogatori e sottopone le tre donne a un assaggio di quanto avviene nelle prigioni, evitando solo la tortura fisica. Non ottenendo alcuna confessione, Iman perde sempre di più il controllo, diventa paranoico e trascina le tre donne nella casa isolata del suo villaggio disabitato, dove si trasforma in un vero aguzzino. Si toglie la maschera del padre e marito amorevole e inizia a comportarsi come probabilmente fa sul lavoro. La moglie e le figlie si trovano di fronte a uno sconosciuto violento e rabbioso, devoto alla logica del suo lavoro infernale. Nel frattempo, il regista ci svela chi ha sottratto la pistola, un dettaglio importantissimo che porterà al tragico epilogo della storia.

Dopo oltre tre ore di film, che però scorrono senza mai annoiare lo spettatore, Rasoulof ci lascia con tante domande. Come può un tranquillo padre di famiglia diventare un mostro? È possibile mediare fra le ragioni della propria coscienza e gli ordini di uno stato totalitario, che per giunta dice di agire in nome di Dio? È la brama di potere su altri esseri umani a spingere il carnefice in una spirale di odio e violenza, da cui non riesce più a uscire? «Dopo la rivoluzione del 1979 – ha dichiarato Rasoulof – ci sono strane testimonianze di fanatismo e di insistenza sull’ideologia che snaturano la portata dell’infanticidio, del fratricidio, della ricerca del martirio, facendoli diventare dei valori quasi religiosi. Negli ultimi quarant’anni, la sottomissione indiscussa alle istituzioni religiose e politiche al potere ha creato profonde divisioni all’interno delle famiglie».

Con questa storia di fantasia, il regista iraniano ci racconta come si distruggono la fiducia e l’amore in seno a una famiglia, evidenziando lo scontro generazionale in atto in Iran.

Una curiosità: sembra incredibile, ma il film Il seme del fico sacro è stato girato a Teheran, eludendo la censura. Con grande coraggio da parte degli attori e della troupe. Dopo la conferma della condanna a otto anni di carcere, alla fustigazione, a una multa e alla confisca dei suoi beni da parte della Corte d’Appello, Mohammad Rasoulof – al quale la Repubblica Islamica d’Iran aveva confiscato il passaporto nel 2017 – è riuscito a fuggire in Europa lo scorso anno. Ha realizzato otto film, tutti censurati e mai proiettati in Iran. «Mi oppongo con forza alla recente ingiusta sentenza contro di me che mi costringe all’esilio – ha detto -. Tuttavia, il sistema giudiziario ha emesso così tante decisioni crudeli e strane che non mi sembra il caso di lamentarmi della mia condanna. La macchina criminale della Repubblica Islamica viola continuamente e sistematicamente i diritti umani».

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