Al Festival della Missione, il convegno per i 150 anni di “Mondo e Missione”. Gli interventi degli inviati Nello Scavo (Avvenire) e Fabrizio Gatti (Today.it), della responsabile di “Buone Notizie” Elisabetta Soglio, del direttore dell’ “Osservatore Romano” Andrea Monda e di Gianni Borsa, direttore di “Popoli e Missione”.
Giornali, tv, radio, ma sempre più anche testate on line, podcast, social media: in un panorama comunicativo che in pochi anni si è completamente rivoluzionato, quale spazio ha l’informazione dal mondo, in particolare da quelle periferie solitamente poco frequentate dai canali mainstream?
Se ne è discusso al secondo Festival della Missione in corso in questi giorni a Milano (fino a domenica), grazie al convegno “Oltre la notizia, il mondo”, promosso da Mondo e Missione, in collaborazione con la Federazione italiana della stampa missionaria (Fesmi) e Ucsi-Lombardia, in occasione dei 150 anni della rivista edita dal Pime. Proprio il superiore generale dell’Istituto, padre Ferruccio Brambillasca, ricordando l’eredità del missionario giornalista padre Piero Gheddo e rilanciando l’invito di Papa Francesco, ha sottolineato la responsabilità di “comunicare le periferie esistenziali” e la necessità di “un giornalismo che sappia consumare le suole delle scarpe per raccontare gli ultimi ed essere vero e credibile”.
Al richiamo della giornalista di Mondo e Missione Anna Pozzi – che ha sottolineato quanto “in un mondo sempre più interconnesso e interdipendente, come hanno dimostrato drammi come la pandemia e ora la guerra in Ucraina, è fondamentale avere una visione il più possibile ampia e complessa delle dinamiche globali” – ha risposto il direttore di Popoli e Missione Gianni Borsa: “I nuovi strumenti digitali – ha constatato – hanno cambiato completamente il modo di fare informazione, anche quella missionaria”. “Oggi le notizie, ma anche foto e video, arrivano in un secondo dall’altra parte del mondo fino alle nostre redazioni, e noi riusciamo spesso a dare spazio con più efficacia a luoghi, temi, parole e storie che non trovano voce nei grandi media”. Un dato inconfutabile, se è vero che l’anno scorso – come rivela il quarto rapporto curato da Osservatorio di Pavia con Cospe, Fnsi, Usigrai e Aics – i temi esteri nei 7 tg nazionali hanno occupato il 30% dello spazio informativo, ma per metà riguardavano l’Europa. E tra i primi dieci Paesi di cui si è parlato di più, nemmeno uno era africano.
In questo contesto, che ruolo svolge ancora la figura dell’inviato, in tutte le declinazioni a cui ci sta abituando il nuovo panorama mediatico? Secondo Nello Scavo, inviato di Avvenire, “la guerra in Ucraina ci ha messi di fronte a una realtà oggettiva: i crimini più brutali sono stati commessi dove i giornalisti non erano presenti. Questo ribadisce l’importanza di essere sul campo per testimoniare. Ma, purtroppo, questo tipo di giornalismo costa molto, basti pensare alle cifre necessarie a garantire un’assicurazione ai professionisti che raggiungono aree di conflitto, quindi gli editori sono posti di fronte a scelte non scontate”. La sfida, per Scavo, è “instaurare un rapporto di fiducia con il lettore, che poi sceglie di farsi accompagnare nel racconto degli eventi”. Quelli più drammatici, “che tuttavia non possono offuscare la speranza rappresentata da storie spesso silenziose di coraggio e resistenza, a volte incarnate dagli stessi missionari”.
Una convinzione condivisa da Elisabetta Soglio, responsabile del magazine Buone Notizie del Corriere della Sera. “Negli ultimi anni è mutato qualcosa nella percezione dell’opinione pubblica, stanca di sentirsi raccontare che esistono solo problemi e tragedie”, ha esordito Soglio. “La nostra sfida è stata – ed è – dare dignità giornalistica appunto alle “buone notizie”, quelle che riguardano il terzo settore, i cittadini che non si arrendono di fronte alle difficoltà, la cooperazione internazionale”. È stata una scommessa vinta, visto che “incontrando questi mondi, pian piano li abbiamo poi portati anche sulle pagine del quotidiano”.
Per certi versi simile è stata l’avventura raccontata da Andrea Monda, direttore dell’Osservatore Romano, che oltre a sottolineare la tradizionale presenza degli esteri “in un giornale che, essendo cattolico, è per sua natura universale”, ha condiviso l’esperienza del recente progetto editoriale dell’Osservatore di Strada: “Si tratta di un mensile che racconta, appunto, le storie e le esistenze di chi vive in strada. Non solo un giornale per i poveri, visto che il ricavato delle vendite va a loro, ma fatto con i poveri, che scrivono, disegnano, fanno foto. Una piccola redazione nella redazione. Come disse Papa Francesco parlando con i giornalisti durante il volo di ritorno dal suo viaggio ad Abu Dhabi: non esiste una storia umana che sia piccola”.
E a tanti invisibili ha dato voce, in decenni di lavoro da reporter, Fabrizio Gatti, oggi direttore editoriale per gli approfondimenti di Today.it. Raccontando alcune delle sue intense esperienze da giornalista infiltrato, tra i migranti in viaggio attraverso il deserto del Sahara così come nei centri di identificazione sotto falsa identità, Gatti ha sottolineato “la trasformazione epocale dell’informazione, che ho vissuto dopo molti anni in cui il metodo di lavoro non era praticamente cambiato”. Questa svolta, sperimentata in prima persona dal giornalista che attualmente lavora in un gruppo editoriale esclusivamente digitale, è quella che ha anche visto “i nuovi media togliere l’intermediazione alle notizie: un meccanismo cavalcato dalla politica che ha spesso usato i social per diffondere un’informazione piegata all’ideologia”. Provocando tra l’altro una disaffezione diffusa del pubblico nei confronti delle notizie.
Di fronte alle manipolazioni, il giornalismo ha dunque più che mai la responsabilità, secondo l’immagine scelta da Nello Scavo, di “unire i puntini per focalizzare l’immagine nascosta dietro ai fatti”.