AL DI LA’ DEL MEKONG
«Silence», l’abiura e il Cristo venuto al mondo per essere calpestato

«Silence», l’abiura e il Cristo venuto al mondo per essere calpestato

L’uscita domani nelle sale italiane del film di Martin Scorsese è un’ottima occasione per leggere anche il libro dello scrittore giapponese Shusako Endo da cui è tratto

 

«Basta! Basta! Signore, è adesso che tu dovresti infrangere il silenzio.
Non devi rimanere in silenzio. Dimostrami che tu sei giustizia,
che tu sei bontà, che tu sei amore. Devi dire qualcosa per mostrare al mondo che tu sei …».
1

 

L’uscita nelle sale italiane di Silence del regista statunitense Martin Scorsese mi offre l’occasione non tanto per una recensione critica del film, quanto per andare alla radice di quel «silenzio di Dio» che è al centro del romanzo dello scrittore giapponese Shusako Endo, da cui Scorsese ha tratto l’ispirazione. Pubblicato nel 1966, il romanzo si rifà ad eventi realmente accaduti. Racconta del gesuita portoghese Sebastian Rodrigues e di altri due giovani confratelli partiti per il Giappone nel 1637 con l’intento di indagare sulla vicenda di un altro missionario gesuita, Christovao Ferreira, loro ex insegnante di filosofia, che aveva abiurato la fede, dopo aver patito la tortura della fossa. Rodrigues e compagni «non potevano credere che Ferreira avesse voltato le spalle a Dio e gettato la mite carità che caratterizzava ogni sua azione»; per questo «volevano a ogni costo arrivare in Giappone e sapere la verità sulla sorte toccata a Ferreira» (25).

Il cristianesimo fu introdotto in Giappone nel 1549 con l’arrivo del gesuita Francesco Saverio, anche se sarà il gesuita italiano Alessandro Valignano il vero artefice della missione nel paese del sol levante. Purtroppo, dopo un promettente inizio, alla fine del 1614 viene pubblicato un editto di espulsione di tutti i missionari, accusati di essere venuti in Giappone «con il desiderio di diffondere una legge malvagia, (…) al fine di mutare il governo del paese e prender possesso della terra».2 In quel momento si contavano in Giappone circa 300.000 fedeli, insieme a seminari, scuole, ospedali e un crescente clero locale. La repressione fu particolarmente violenta e le torture inflitte a sacerdoti e cristiani furono cruente ed efferate. Fra tutte «la tortura della fossa» si rivelerà uno strumento efficace per costringere i fedeli all’abiura: sospesi e legati a testa in giù, veniva loro praticato un taglio superficiale dietro le orecchie o sulla fronte perché morissero lentamente, a meno di abiurare. In tutto questo, di fronte all’agonia di molti cristiani c’è solo il silenzio. Il silenzio di Dio, «la sensazione che mentre gli uomini levano la loro voce angosciata Dio rimane silenzioso, a braccia conserte» (83). La vera lotta, la prima e più importante prova per i fedeli giapponesi e i missionari è infatti accettare, sostenere, perdonare il silenzio di Dio nella più profonda solitudine. «Per certi versi – scrive Rodrigues – noi sacerdoti siamo un triste genere di uomini. Venuti al mondo per soccorrere l’umanità, nessun altro individuo è più squallidamente solo del prete che non è all’altezza del suo compito» (36). «La mia lotta – dirà alla fine il missionario – era con il cristianesimo, all’interno del mio stesso cuore» (219).

L’interesse di S. Endo per una simile vicenda storica cominciò nel 1964 dopo che vide in un museo di Nagasaki alcuni fumie, immagini di legno, disegnate o in bassorilievo, che raffiguravano Cristo o la Vergine col Bambino e che durante la stagione delle persecuzioni i cristiani erano costretti a calpestare. Quando venivano arrestati infatti, veniva loro chiesto «di sputare sul crocifisso e di dichiarare che la Beata Vergine era una sgualdrina» (77) fino a calpestarne l’immagine. Così successe a Kichijiro, figura centrale del racconto, giapponese e cristiano della prima ora che verrà indotto all’abiura e al tradimento. Nel romanzo viene più volte paragonato al Giuda dei Vangeli, perché per denaro (e paura) tradisce la fiducia di Rodrigues causandone la cattura. Facile da disprezzare per via della sua debolezza e codardia, in realtà sarà ancora Kichijiro a riscattare la sorte del gesuita, non in virtù della sua forza ma della sua paura. Nel romanzo Kichijiro è il primo a segnalare l’insostenibile silenzio di Dio: «Perché Dio Sama ci ha imposto questa sofferenza? … che male abbiamo fatto?» (76). Se in Rodrigues c’era piuttosto l’impavido coraggio che gli derivava dalla consapevolezza di essere «l’ultimo baluardo del Vangelo in questo paese» (53), alla fine dovrà ammettere che tra lui e il suo traditore non v’è alcuna differenza, riconoscendo che dietro «il sogno egoista dei missionari» (165), disposti a resistere nel tentativo di una performance personale perfetta e fedele al Vangelo, può annidarsi l’orgoglio. Durante un interrogatorio Rodrigues è messo alle strette da uno dei funzionari: «Padre ha pensato alla sofferenza che ha inflitta a tanti contadini solo per il suo sogno, solo perché vuole imporre al Giappone il suo sogno egoista? Guardi! Il sangue scorre di nuovo. Il sangue di quella gente ignorante sta scorrendo di nuovo!» (164). E per quanto più volte Rodrigues fosse riuscito a superare la tentazione lasciando «sfilare sotto le palpebre chiuse tutte le scene della vita di Gesù» (130) in una immedesimazione perfetta con il Cristo, non poteva non ammettere che «da quando era arrivato in quel paese, aveva provocato solo disastri a quei poveri cristiani» (106). E, ancora, se nella persecuzione era perfettamente in grado di considerare il suo destino uguale a quello di Cristo e sperimentare «la gioia del cristiano che gioisce della verità di essere unito al Figlio di Dio» (153), nondimeno Rodrigues avrebbe voluto essere un uomo normale, condurre una vita normale senza il tragico peso del Vangelo e lo smacco di sentirsi continuamente dire «noi abbiamo la nostra religione, non ne vogliamo una nuova, straniera» (114), «sapete che il cristianesimo è una religione fuori legge» (77) e ancora, sentir giudicare «l’opera dei missionari come una costrizione all’amore» (151). Di lì a poco l’accusa si spingerà ancor più oltre: «Padre, noi non stiamo discutendo se la sua dottrina sia giusta o sbagliata. Il motivo per cui abbiamo bandito il cristianesimo dal Giappone è che, dopo profonda e seria considerazione, troviamo che questo insegnamento non abbia alcun valore per il Giappone di oggi» (136). Per finire col paragonare il cristianesimo ad una donna brutta e sterile: «Padre, voglio che lei rifletta su due cose (…). Una è che l’affetto assillante di una donna brutta è un peso insopportabile per un uomo; l’altra è che una donna sterile non dovrebbe diventare moglie» (152). Con immagini così vivide e pregnanti, al missionario non resta che l’estraneità e la sterile irrilevanza.

Il libro raggiunge il suo vertice con il confronto finale tra i due missionari. Finalmente dopo mesi di viaggio e di ricerca Rodrigues incontra Ferreira. Quest’ultimo, che sottoposto alla tortura della fossa aveva già abiurato, fu incaricato di condurre anche Rodrigues per la stessa strada. Prima con argomenti razionali, «lei è l’unico prete cristiano rimasto in questo paese. Adesso è stato catturato e non c’è più nessuno a insegnare ai contadini e a diffondere la dottrina. Non le sembra di essere inutile?» (176). E ancora, «questo paese è una palude. È ora che lo capisca anche lei. Questo paese è una palude più tremenda di quanto possa immaginare. Quando si pianta un alberello, in questa palude le radici cominciano a marcire, le foglie diventano gialle e avvizziscono. E noi abbiamo piantato l’alberello del cristianesimo in questa palude» (178). «Hanno deformato e cambiato il nostro Dio e ne hanno fatto qualcosa di diverso» (180). «Il cristianesimo è perito non perché è stato proibito o perseguitato. In questo paese c’è qualcosa che soffoca totalmente la crescita del cristianesimo. (…) Il cristianesimo in cui credono … contiene soltanto la forma esterna; il sangue e la carne sono scomparsi» (183).

Eppure tutto questo ancora non basta a far cadere Rodrigues. «Come ci si poteva sacrificare per una fede falsa? Aveva visto con i suoi occhi quei contadini, quei martiri colpiti dalla miseria. Se non avessero sinceramente creduto nella salvezza come sarebbero potuti sprofondare nel mare coperto di brume? In ogni caso erano cristiani forti. Anche se la loro fede era semplice e rozza, essa infondeva una convinzione che era stata seminata in Giappone non da quei funzionari e tanto meno dal buddismo, ma dalla Chiesa cristiana» (184). Imprigionato, al buio e ridotto a nulla, Rodrigues persevera immaginando il volto di Cristo. «Provava in petto una sensazione diversa non appena il volto di quell’uomo gli compariva dietro le palpebre abbassate. Ora nell’oscurità quel volto gli sembrava vicino» (192). Ma ciò che fece precipitare il gesuita non fu tanto la sofferenza personale quanto il fatto che, messo in condizioni di udire i rantoli dei cristiani sottoposti alla tortura della fossa, non riuscì a resistere. Sapeva che se avesse abiurato, i funzionari avrebbero risparmiato la vita a quei contadini. Anche per Ferreira la stessa sorte, e confessa: «il motivo per cui ho abiurato … sono stato messo qui e ho sentito le voci di quella gente per cui Dio non ha fatto nulla. Dio non ha fatto assolutamente nulla. Ho pregato con tutte le mie forze, ma Dio non ha fatto nulla» (199). Quei contadini appesi avevano già abiurato, me venivano usati come cavie per costringere anche i missionari ad abiurare. «Se dice che abiurerà questa gente sarà tolta dalla fossa. Sarà salvata dalla sofferenza. E lei rifiuta di farlo – incalza Ferreira. È perché teme di tradire la Chiesa. Teme di diventare la feccia della Chiesa come me (…) E tuttavia è amore il suo modo di comportarsi? Un prete dovrebbe vivere a imitazione di Cristo. Se Cristo fosse qui … Certamente Cristo per loro avrebbe abiurato» (201). Rodrigues è alle strette, non gli resta che calpestare il volto. E quel volto che aveva «considerato la cosa più bella della sua vita», improvvisamente torna a parlagli, non più immaginato dietro le palpebre chiuse, ma vivo più che mai, reale, supplice: «Calpesta! Calpesta! … Io sono venuto al mondo per essere calpestato dagli uomini!». «Il prete posò il piede sul fumie. L’alba proruppe. E lontano il gallo cantò» (203).

La scena finale del libro, sorprendente e di una densità teologica incalcolabile, racconta il ritorno di Kichijiro alla ricerca di un confessore. In un dialogo serrato tra i due, Rodrigues cerca di schernirsi dicendo di non essere più padre, perché indegno dopo l’abiura. E Kichijiro che incalza «lei però può ancora ascoltarmi in confessione!» (221), «La prego ascolti la mia confessione». Entrambi avevano abiurato, entrambi avevano calpestato il volto santo di Cristo, entrambi cercavano il perdono perché ancora credevano. «Poiché in questo paese non c’è adesso nessun altro che possa ascoltare la tua confessione, lo farò io… Dirai le preghiere dopo la confessione… Và in pace!». In questo atto finale Rodrigues veniva confermato nel suo sacerdozio nonostante l’abiura e riconosceva di amare Cristo «in modo diverso da prima. Tutto quello che era accaduto fino a quel momento era stato necessario per portarlo a questo amore. “Persino ora – conclude Rodrigues – sono l’ultimo prete in questa terra. Ma Nostro Signore non ha taciuto. Anche se avesse taciuto, la mia vita fino a questo giorno avrebbe parlato di lui» (223). E «se i cristiani e il clero guardano a me come a una macchia nella storia della missione, ormai non mi importa più» (218).

1 S. ENDO, Silenzio, Milano 1982, 199. D’ora in poi, ad ogni citazione indico la pagina corrispondente.
2 C. R. BOXER, The Christian Century in Japan, University of California Press, 1951, 318.